di Valeria Parrella
Einaudi, 2013
pp. 126
Valeria Parrella su “Grazia” dedica una pagina alla rubrica “Leggi e Viaggia” seguendo un’idea che mi piace moltissimo, quella di collegare i libri ai luoghi in cui sono ambientati. Un po’ come i miei articoli per CriticaLibera ospitati su Critica Letteraria. E mi si perdoni l’autoreferenzialità.
Con Valeria Parrella la letteratura rivendica un ruolo forte, la sua è un’Italia che merita attenzione perché filtrata attraverso la qualità della scrittura. Non è l’unica giovane autrice che ci fa riflettere su temi importanti come l’eutanasia, il lavoro che non c’è, la guerra spesso dimenticata, il nostro disorientamento (e qui cito il suo “Lettera di dimissioni”).
Stavolta il tema è delicatissimo e rude al tempo stesso. Rude come un meteorite che ti cade addosso e che provoca una dolorosa estinzione: quella delle certezze e della felicità. Perché non c’è felicità più grande per una donna come quella che accompagna l’attesa di un figlio e, dunque, se il figlio è disabile non esiste dramma più feroce e ostinato.
«La disabilità colpisce l’essere umano dove meno se l’aspettava e dove fa più male: nell’Essere e nell’Umano».Credo che potremmo fermarci qui e avremmo già detto tutto, eppure sento come l’esigenza di farvi innamorare di un libro meraviglioso che quando l’ho chiuso ho sentito salire le lacrime senza vergognarmene, nonostante fossi in un luogo pubblico e la gente che guardava e queste fisime qua.
Arturo, il figlio della protagonista, porta impresse due cose: la H , lettera iniziale di handicap, e un numero: 104. Quello di una legge che questo Paese si ostina a immiserire nei suoi elementi migliori, civili. Si deve combattere per l’insegnante di sostegno e per le ore che spettano come se le burocrazie se ne infischiassero delle fatiche quotidiane, intime, che si è costretti a vivere, aggiungendone di altre. Forse le più umilianti.
Sento di dover sottolineare questo aspetto: la fatica. C’è un eroe della mitologia che ne ha dovute superare di terribili: Ercole. Figlia di una terra arcaica, fra Positano, Napoli e Cuma, Valeria Parrella può impossessarsi legittimamente di questo retaggio e trasferire alla protagonista il carattere e la tenacia dell’eroe greco. Poi il carattere e la tenacia di Ulisse, di Enea e del padre Anchise. Ma per quest’ultima metafora funziona l’esatto rovesciamento dei ruoli: è il genitore che deve assumere sulle spalle il peso del figlio. La Troia in fiamme è sempre lì, a seguire entrambi, cinica, incendio che vorresti spengere e per il quale non ci sarà mai acqua a sufficienza. Resta solo quel peso. Inatteso. Se vogliamo immeritato.
«- Arturo non parla, però pensa - ha detto una bambina sgretolando in una frase duemilacinquecento anni di Logos».Notate il termine Logos, greco, la nostra civiltà lo usa da Eraclito e ha dovuto farci i conti perfino Heidegger. Nella frase della compagna di classe di Arturo c’è un capovolgimento totale, che scuote.
Procedendo di questo passo, allora, per chi scatta il tempo di imparare del titolo? Per Arturo, certo, ma anche per la madre. E imparare cosa? «Intimità. Il luogo dove la diagnosi non si spingerà mai, invisibile al medico che sa dire solo “condotte autistiche”. La profonda intimità con il mare» che scandisce passaggi del libro di una umanità dimenticata.
Ma soprattutto imparare «che ciò che per tutti è normale, per noi è bellissimo». Per noi, per genitori che una semplice frase pronunciata da un figlio disabile e composta semplicemente da soggetto, verbo e predicato, come fosse l’eco dell’infanzia del mondo, suona come l’equazione scaturita da un acceleratore di particelle. Anzi, ha molta più validità, perché immediata, senza bisogno di chissà quali esperimenti per essere avvalorata.
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