Lettera a una professoressa
della Scuola di Barbiana
Libreria Editrice Fiorentina, 1967
La scuola è da sempre un argomento scottante in Italia e non c’è bisogno di dilungarsi sui motivi. L’istruzione per troppo tempo è stata rivolta a pochi prediletti – non solo nel nostro Paese – e ha subìto le conseguenze di una Penisola divisa, povera e sotto dominio straniero.
Ciò non significa però che gli allievi italiani debbano ancora patire gli strascichi di un’istruzione minata dalla storia e dalla politica. Al contrario, bisogna lottare affinché gli studenti italiani portino avanti la storia del proprio Paese con orgoglio. Troppo spesso i professori dimenticano la propria missione: insegnare (dal verbo latino insignare, tracciare segni). In questa sede però, non si tratta di tracciare segni in senso letterale, bensì in senso figurato: lasciare un segno nell’allievo (in-signare). Il professore è portatore di un’eredità da condividere e trasmettere (dal latino transmittere, mettere al di là) ai giovani il proprio sapere affinché venga approfondito, accresciuto, migliorato. La scuola è una sfida quotidiana, puntare a un obiettivo senza demoralizzarsi, la classe diventa una sola anima che lavora ad unisono.
Questo è quello che ci insegna Don Milani, negli anni ‘60, in “Lettera a una professoressa”. Sebbene risalente a circa cinquant’anni fa, questo testo dovrebbe essere la Bibbia di tutti gli insegnanti italiani. Attuale, fresco, incalzante, preciso, chiaro: questa lettera scritta a più mani dagli allievi di Barbiana di Don Milani è un affresco fedele della situazione scolastica degli anni ‘60 e in parte dei giorni nostri. Perché bisogna ammetterlo, la nostra scuola – dopo tante riforme e tanti dibattiti – ancora ha da imparare dalla scuola di Barbiana e da Don Milani.
In una scuola in cui i professori si lasciano spesso prendere dalla pigrizia e dai problemi personali, don Milani e i suoi allievi ci danno una lezione di vita scolastica: apprendere si può, con costanza, impegno e lavorando insieme senza limiti di orario. Diretta ad una singola professoressa “simbolo” e scritta in prima persona, questi piccoli scrittori si impegnano a trattare con arguta diplomazia il loro punto di vista dinanzi ad una scuola egoista e menefreghista. L’esordio della lettera, infatti, non lascia spazio a interpretazioni:
“Cara signora,
lei di me non ricorderà nemmeno il nome.
Ne ha bocciati tanti.
Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi,a quelli dell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che «respingete».Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate”
Gli studenti disegnano con precisione grafici a sostegno della loro tesi: una scuola che preferisce abbandonare studenti in difficoltà piuttosto che rimboccarsi le maniche e dar loro una speranza. Perché l’istruzione, perché la scuola, perché la vita scolastica è speranza e civiltà. Ci aiuta a vivere in società, ci apre la mente, ci aiuta a comunicare. Invece, lo scandalo che denuncia questa lettera è tutt’ora attuale:
“[…] È l’aspetto più sconcertante della vostra scuola:
vive fine a se stessa”
Non esiste comunicazione tra professori, tutte le materie vengono coltivate come un orticello a se stante, tutti gli insegnamenti vengono imposti come luride paginette da studiare e ripetere a perdifiato senza cogliere il vero senso di ciò che ci trasmettono:
“Perché non c’è nulla sul giornale che serva ai vostri esami. È la riprova che c’è poco nella vostra scuola che serva nella vita”.
Le materie dovrebbero essere un tutt’uno, proseguire sulla stessa strada mano nella mano fino a ricostruire un puzzle limpido e coerente:
“Nel suo [della professoressa a cui è indirizzata la lettera, ndr] programma d’italiano ci stava meglio il contratto dei metalmeccanici. Lei signora l’ha letto? Non si vergogna? È la vita di mezzo milione di famiglie. Che siete colti ve lo dite da voi. Avete letto tutti gli stessi libri. Non c’è nessuno che vi chieda qualcosa di diverso”.
A volte si ha questa impressione, ovvero che gli insegnanti si poggino sugli allori e non siano più interessati alla cultura, al sapere e alle letture. Eppure, è tutto falso. Ma c’è quel disinteresse, quella barriera che non spinge alcuni (?) professori a farsi avanti verso quei ragazzi apparentemente indisciplinati e disinteressati.
La scuola è come una dieta, è una battaglia che all’inizio appare senza risultati ma che bisogna affrontare giorno dopo giorno. Ma dopo mesi di duro lavoro, conduce al risultato preventivato. Il professore non dà il debito e/o la bocciatura per togliersi dai piedi una seccatura, lotta affinché lo studente si interessi, si informi, si aggiorni:
“È comodo dire a un ragazzo: «Per questa materia non ci sei tagliato». Il ragazzo accetta perché è pigro come il maestro. Ma capisce che il maestro non lo stima Eguale”.
L’insegnante non “boccia e parte per il mare”. Il debito non deve essere imposto come una condanna, ma come uno sprono perché “una passione per lo studio nata da sé è così forte da non lasciarsi abbattere dagli insuccessi”. Le lezioni non sono una ripetizione meccanica del libro stampato, ma un’interazione con chi ascolta fatta di parole semplici e chiare.
I professori devono informarsi sugli interessi dei giovani di oggi: com’è facile capire un argomento o una regola di inglese prendendo come esempio gli idoli del momento! O capire un problema di geometria o un’equazione tirando esempi dalla vita reale! Il corpo umano? È tutto più semplice se i temi più scottanti vengono toccati da vicino! Basta prendere come riferimento le semplici regole della scuola di Barbiana:
“I – Non bocciare.
II – A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a pieno tempo (senza farla sembrare una tortura pero', ndr).
III – Agli svogliati basta dargli uno scopo.”
La scuola è fatta di persone con un cervello, un’anima e un cuore. Ma come tutte le situazioni, prima di colpire il cervello, bisogna giungere al cuore di una persona per conquistarla. Perché, come ci ricordano gli allievi di Barbiana, “il fine giusto è dedicarsi al prossimo”.
Caro professore italiano,
non dimenticare il tuo prossimo. Non dimenticare le battaglie del passato, assopendoti sulla cattedra e risvegliandoti solo al suono della parola “crisi” e “pensione”.
Insegnare non significa solo concedere un servizio per riscuotere uno stipendio. Insegnare è una missione.
Cari professori del futuro,
portate avanti questa missione. Leggete Don Milani e cominciate il vostro compito con spirito vivo e vegeto. Perché queste perle di vita scolastica valevano negli anni ’60, adesso, sempre.
Voi siete la materia prima dell’Italia.
Arianna Di Fratta
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