"La verità è tanto più difficile da sentire quanto più a lungo la si è taciuta", diceva Anna Frank. E ancora adesso, quando si celebra, racchiudendolo in un solo giorno, l’orrore che l’Olocausto ha rappresentato, quasi a voler chiudere un buco nero in una scatola, io ripenso a quella mia prima lettura così significativa, Il diario di Anna Frank, mia coetanea, quando ne scoprivo le emozioni, con le passioni di una adolescente e la forza di un adulto. Adulto che non fu mai. Quasi sapesse che il poco tempo concessole dal suo presente dovesse in qualche modo bastarle per condensare in pochissimi anni la saggezza di una vita intera.
“E nonostante tutto io credo all’intima bontà dell’uomo”, dal suo scantinato, come un topo in trappola, con il lembo di cielo che le era permesso immaginare, perdonava l’imperdonabile. Non so se sarebbe riuscita a credere intimamente “buoni” anche coloro che negarono che quell’orrore fosse mai avvenuto, o i carnefici che si ritennero solo vittima di un sistema, di fronte a tribunali in cui negarono di essere stati mandanti, ma solo “tramite”, esecutori di ordini, e infine cosa avrebbe pensato del ricordare celebrando, che si consuma ogni anno, il 27 gennaio, come Giornata della Memoria. Così spiegata, in una delle tante manifestazioni che si rincorrono nel nostro Paese in quella data, nelle parole del sindaco di Torino:
“[...] data simbolo dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz per ricordare il genocidio degli ebrei, la promulgazione delle leggi razziali del 1938, la persecuzione dei cittadini ebrei, la loro deportazione e la prigionia. Ci sono date che segnano un prima e un dopo: il 27 gennaio 1945 è una di quelle. Dopo quel giorno più nessuno può ignorare e nulla può più essere dimenticato. Il mondo ha avuto da quel momento la consapevolezza di un orrore assoluto da non poter essere raccontato con le parole delle ricostruzioni storiche”.
Eppure ricordare, in termini celebrativi, una data simbolica, per racchiudere anni di buio assoluto, di sparizioni, di atrocità insopportabili, non basta. Lo scrive provocatoriamente Elena Lowenthal, scrittrice e studiosa di ebraismo, nel suo ultimo pamphlet dal titolo Contro il Giorno della Memoria:
“Se solo la si potesse dimenticare, questa storia. Non i suoi morti, che poi sono miei, ma la storia in sé. Le leggi razziali, le persecuzioni, i treni con i deportati, le camere a gas, le torture, le fucilazioni di massa, le violenze assurde. Perché mai coltivarne la memoria, se non per continuare a star male? Ma l’autolesionismo non fa parte della mia identità, né del mio bagaglio morale o teologico. L’ebraismo è una cultura della vita, ha fede nella vita. Non coltiva la morte. Pensare che gli ebrei ambiscano a celebrare questa memoria significa non provare nemmeno a mettersi nei loro panni. Quella memoria è scomoda, terribile, respingente. Ne farei tanto volentieri a meno, non finirò mai di ripeterlo. È la prima cosa da chiedere, appuntata nella mente, se mi capitasse di nascere un’altra volta, con la possibilità di opzione: grazie, questo no. Né prima né durante né dopo. Mettetemi in un mondo dove non c’è la Shoah. Anche per questa ragione, o forse in primo luogo per questa ragione, io rinnego il GdM: non mi appartiene, non gli appartengo, non riguarda me e la mia, di memoria. La mia memoria non comunica. Malgrado la mia vicinanza estrema e quotidiana, provo una frustrazione terribile che è la conseguenza di una distanza minima, ma insormontabile. A un passo di lì ci sono quel dolore, quelle paure. Lo so, ma non posso far nulla per condividerlo, per sentirlo, per renderlo comunicabile. Non lo è né lo sarà mai. Come non è veramente condivisibile alcuna sofferenza al mondo, del resto. [...] “.
Provocazione che non vuole negare, anzi, amplifica il peso dell’orrore. Un orrore che mirava ad annullare l’uomo, ogni giorno, rendendo vane le sue occupazioni dentro il lager, un vagare orribile verso il nulla; laddove il lavoro non nobilitava, le marce non liberavano, le docce non purificavano, la dignità non aveva più ragione di esistere, come racconta nel suo celebre Se questo è un uomo, Primo Levi. Di questo orrore si macchiarono i gerarchi tedeschi ma non solo, un intero esercito di signor nessuno, che divennero di colpo assassini, in nome di ordini imposti dall'alto o di convinzioni inculcate da una ideologia del male, che molti hanno cercato di analizzare e definire.
Tra questi la filosofa tedesca ebrea Hannah Arendt, a cui la regista Margarethe Von Trotta ha dedicato un film, uscito nelle sale italiane proprio il 27 e il 28 gennaio, in occasione delle celebrazioni del ricordo. Il film racconta solo una parte della sua vita, dal '61 al '64, quella in cui da inviata del New Yorker seguì a Gerusalemme il processo del criminale nazista Eichmann. Da quei contestatissimi articoli nacque un libro, La banalità del male (testo del 1963 pubblicato col titolo originale Einchmann in Jerusalem, A Report on the Banality of Evil), che sosteneva le teorie secondo cui, coloro che si erano macchiati delle atrocità nei campi di sterminio, non erano delle incarnazioni del male assoluto, ma dei signor nessuno, meri burocrati, come si definivano, incapaci di pensare con la loro testa:
“ [...] Eichmann non capì mai quello che stava facendo. E non era uno stupido, era semplicemente senza idee, una cosa molto diversa dalla stupidità. E proprio quella mancanza di idee lo predisponeva a diventare uno dei maggiori criminali del suo tempo, perché la mancanza di idee, la lontananza dalla realtà, possono essere molto più pericolose di tutti quegli istinti malvagi che si crede siano innati nell’uomo. È stata questa la lezione del processo di Gerusalemme.”
Il libro, in cui la Harendt metteva in luce anche il ruolo dei capi della comunità ebraica nella deportazione, è stato sottoposto a censura dal primo ministro Ben Gurion, e in Israele si è potuto leggere solo nel 2002, dopo quarant’anni. Il film, invece, è stato cooprodotto dalla Film Commission di Gerusalemme e da Israele.
Il tempo, spesso, sana ferite ingiuste. L'orrore non si può cancellare, ma cercare di indagare l'origine del male e contrapporre la forza del pensiero, al sonno della ragione, resta l'unica via possibile. E nel cercare di indagare questa verità non sempre la visione è univoca, come testimoniano le dichiarazioni di Claude Lanzmann, fondatore della Resistenza francese, professore universitario a Berlino, direttore della rivista Le Tempes Modernes, sostenitore dell'innocenza dell'ex rabbino di Vienna Murmelstein, accusato di collaborazionismo. Per Lanzmann la teoria della banalità del male è assurda, visto che per lui le parole hanno un peso sulla questione delicata dell'Olocausto, e Einchmann può essere definito un "demone", come ha affermato in una recente intervista.
In altre parole il dibattito sulla memoria è sempre aperto e non può limitarsi a celebrazioni episodiche che rischiano di decontestualizzare il peso storico di quegli avvenimenti. Personalmente ritengo che la memoria sia un dovere, ma anche una responsabilità. Il senso del ricordare doveva essere un monito per l'umanità, ma quel "mai più" del post-olocausto si ripete ogni giorno, anche adesso, con lo stesso orrore. Non chiudersi nell'alibi della memoria ma tenere gli occhi aperti sui massacri non significa negare la portata terribile di quello che è stato e continua a essere la Shoah, ma è ugualmente vero che non servono celebrazioni e ricorrenze se la storia non insegna più nulla. La memoria non è una tomba silenziosa su cui poggiare sassi, è un grido disperato che ci obbliga a non chiudere gli occhi.
Samantha Viva
Samantha Viva
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