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Il dilemma del'ebraismo

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La famiglia Karnowski
(Di mishpohe Karnovski)
di Israel Joshua Singer
Adelphi, 2013 

1^ edizione: 1943
pp. 494


Adelphi è come noto casa editrice di classe. Io le sarò grato in eterno perché presso i suoi tipi è stato pubblicato il Libro dei Libri, ovvero “La versione di Barney” di Mordecai Richler – mai mi stancherò di ripeterlo – ma al di là dei gusti personali, è evidente che grazie ad Adelphi abbiamo riscoperto negli ultimi anni scrittori dimenticati per molto tempo. Grandi scrittori: Sándor Márai, Irène Némirovsky sono i primi che mi vengono in mente. Adesso è la volta di Israel Joshua Singer, fratello maggiore del celebre Isaac Bashevis, premio Nobel per la letteratura e ritenuto l’impareggiabile cantore dello scomparso mondo yiddish.
Non voglio certo sminuire il talento di Isaac, ma questo è un articolo dedicato a Israel e al suo ritratto collettivo che, per precisione narrativa e struggimento, tiene egregiamente testa a qualsiasi opera del fratello. Israel Joshua Singer, di cui Longanesi ha pubblicato anche i “Fratelli Ashkenazi”, dimostra di avere molto da raccontare specie se si cala su un terreno a lui congeniale: affreschi familiari di grande respiro. Tre sono i blocchi sui quali si cementa la vicenda dei Karnowski, tanti quanti sono i protagonisti: David, Georg, Jegor. Capostipite, figlio e nipote. Non è che passando dal primo al secondo e dal secondo al terzo si abbandonino gli altri, un filo di Arianna unisce le rispettive vite anche nei momenti più intensi e drammatici.
La storia prende le mosse da un piccolo shtetl della Polonia, all’alba del Novecento e qui pare di essere sulle tracce di Isaac. Ma Israel Singer si emancipa da tale ingombrante fardello, abbandona subito lo shtetl, fa giusto in tempo a disegnarcelo come preda dell’ebraismo chassidico più intransigente, che evidentemente non suscita grandi simpatia nell’autore, per passare a Berlino, patria per eccellenza dell’illuminismo ebraico. David infatti vi si reca con la moglie, un po’ restia, per lasciarsi alle spalle questo villaggio di rabbini barbuti.

È qui che l’affresco assume i toni più ricchi: la capitale del Reich guglielmino è un brulichio di ebrei a ogni dove, Israel racconta i sogni d’integrazione di questi che nel frattempo, secondo la migliore tradizione, se ne fanno vicendevolmente di tutti i colori, i sogni di David Karnowski, poi di suo figlio Georg che secondo gli insegnamenti del padre deve essere «tedesco tra i tedeschi» prima ancora che «ebreo tra gli ebrei». La cosa pazzesca è che questi israeliti immigrati o tedeschi soltanto da una generazione, i cui pionieri provenivano dalle remote regioni dell’est europeo, soprattutto quelle dell’impero zarista dove i pogrom erano all’ordine del giorno, si sforzano di dimostrare ai germanici purosangue il loro progressivo, entusiastico e sempre più spasmodico desiderio di assimilazione.

La frattura fra David e Georg si consuma inizialmente su un terreno molto simile a quello di qualsiasi famiglia. È il classico conflitto genitori-figli, fra un padre dedito al lavoro, allo studio dei testi sacri e alle conversazioni erudite e un figlio a cui piacciono le donne, le serate in birreria e cambiare università a seconda del capriccio. Poi, improvvisa, la batosta si abbatte e stavolta non è un dissidio tra un uomo maturo e un erede che non ha voglia di mettere la testa a posto: Georg decide di sposare una “gentile”, una non ebrea. Anzi: un’ariana. Perché siamo arrivati agli anni Venti e già si sentono in giro minacce antisemite e teorie razziali anche se Weimar sembra resistere e grazie all’afflusso di valuta straniera, soprattutto dollari, perfino consolidarsi. Ma un matrimonio fra un ebreo e una non ebrea oltre a scavare il fossato fra David e Georg, divenuto nel frattempo un luminare della medicina, ha un’ulteriore conseguenza: il figlio Jegor è un “bastardo” e la cosa non passerà inosservata nella Germania nazista.
Israel adotta dunque un cliché tipico della letteratura, la saga familiare, per affondare con il bisturi nel problema enorme, millenario, del rapporto fra ebraismo e società. Ebrei e goym. L’incomunicabilità. L’irriducibile diversità nonostante gli sforzi tesi a ridurre una particolare antropologia a fattore domestico, privato, «ebrei in casa», e a manifestare indefessa fedeltà allo Stato ospitante, «tedeschi per strada».

Bene, tutta questa fatica non viene ripagata e il libro, dove i personaggi di contorno appaiono al momento giusto e con profili perfetti per completare l’edificio narrativo, è efficace nel ritrarre l’atmosfera che lasciava presagire, ma non ancora vedere, il buio della Shoah. Israel Joshua Singer non ha conosciuto Auschwitz, è morto nel 1944, non ha dovuto confrontarsi con quella tremenda verità. Toccherà a suo fratello, appunto, narrare lo yiddish che non esisteva più perché annientato nei forni crematori.
Eppure il romanzo apre lo stesso splendide finestre su un mondo di una complessità a volte disarmante e dà il senso di una sfida gigantesca ancora caratterizzata da un’irrisolta convivenza. Toccherà a Jegor, teatro New York dove i Karnowski si sono rifugiati per sfuggire al nazismo, tradurre nelle sue forme più terribili, pagare sulla sua persona e letteralmente sul suo corpo, questo cortocircuito tra sete di inclusione ed evidenza del fallimento. Capolavoro.