La sete dei pesci
di Devis
Bellucci
A&B Editrice, 2013
pp. 173
Il mio primo terrore è quello degli specchi, da quando ero bambino che raccontavo favole a me stesso se il nonno era al bar. Il mio secondo terrore è quello delle mani tese che salgono dal basso e il terzo di farmi sfruttare nel lavoro da altri uomini più impresentabili di me, siano essi clienti o padroni, e siccome il quarto terrore è quello del carcere, dove di solito cadono i fessi che rubano per non lavorare, l’unico modo per superare le secche lungo i fondali è indurre il cucchiaio degli altri a nutrirti, come la rondine imbocca i piccini […]. Il mio quinto terrore è avere uomini intorno che mi conoscono bene. Ovviamente anche donne. Francesca, per come mi faceva sentire abitato, mi conosceva bene.[1]
Filippo Zanardi, il protagonista
del romanzo, è un giovane che sembra costantemente fuggire dalla propria identità.
Studente fuori corso all’Università, finge di aver conseguito una fantomatica
laurea in Scienze Politiche e in Giurisprudenza e di svolgere, a seconda delle
situazioni che si dipanano nel romanzo, varie professioni. Ha un riferimento
femminile che lo segue ovunque. Di Francesca, la donna per cui ha provato forse
l’amore più importante della propria esistenza, è rimasto solamente un
biglietto con un’interrogativa. Dove sei?
È una figura che traspare continuamente nel
romanzo; la sua presenza è continua, volutamente evocata da Filippo. Non è una
ricerca ossessiva verso la donna quella del protagonista che sembra in un
primo momento rimanere inerte di fronte agli accadimenti e incapace in qualche
modo di reagire:
Non volevo entrare, tremavo. La mia casa era piena di Francesca. Un albergo qualunque mi avrebbe salvato. […] Presi la chiave, eccola. L’odore mio e di Francesca non poteva restare per due anni. Avrei trovato umidità e buio e qualche segno di muffa. La serratura scattò. Entrai.[2]
La ricerca della percezione
femminile di Francesca si colora a tratti di tenerezza e altrove di finta
superficialità, condita anche da un linguaggio volutamente spudorato. In realtà
il “passaggio” della donna nella vita di Filippo ha un sapore differente. Il
lettore coglie la traccia indelebile lasciata dalla personalità di Francesca e
dalle emozioni provate dal protagonista della storia.
Il nonno di Filippo è un’altra
figura determinante nel romanzo: molti sono i punti di contatto con il giovane:
apparentemente scorbutico e asociale, l’anziano è molto legato a Filippo che
diventa il suo confidente. I dialoghi tra i due sono caratterizzati dall’odio
che egli prova nei confronti della madre di Filippo, una donna che ha da sempre
cercato una libertà professionale e creativa mai raggiunta in realtà, e che ha
costantemente disperso la propria esistenza nel raggiungimento di obiettivi
inutili e fatui, secondo il parere dell’anziano. Filippo sembra dimostrare
passività nei confronti del nonno, ma lo lega un’affinità esistenziale
evidente:
Tornai in casa e presi uno dei miei libri di Bukowski, e guarda cosa mi salta fuori? La stampella del nonno, di quando gli avevano rifatto l’anca. Non avrei mai pensato che mi sarebbe tornata utile, di solito ci nascondevo dentro la marijuana quando lo portavo a spasso. Uscii dunque in strada con la mia stampella camminando a fatica in quella valle di lacrime, e presi a leggere il caro Charles da Los Angeles. Procedendo verso il mio incontro ravvicinato, pensavo a quanto fosse giusto il mondo, il mondo che mi aveva dato una casa in cambio di un divorzio non mio, e consideravo tutta quella gente rumorosa e preoccupata, imballata di stress dentro auto di vari colori.[3]
La storia è connotata dai
frequenti inserimenti dei dati sensoriali che divengono leitmotiv dell’intero romanzo: il mondo arido di Pedro (il
pesciolino di Filippo) è un universo dalle pareti accoglienti per il giovane,
come la stessa camera del nonno che odora di neve e candeggina, una dimora
liberata dalla trascuratezza esistenziale del nonno. Ѐ ciò che avvicina ancora i due
Il
mondo di Pedro era quello che aspettava tutti noi. Un deserto liquido con le
dimensioni invertite. Pareti avvolgenti in ogni direzione. Disinfettante per
ostacolare la proliferazione dei parassiti. […]
Sì, era proprio il nonno, quello che giocava a carte, che bevevo il vino frizzante rosso e ne metteva nel minestrone, nel latte, sull’arrosto, e lo usava per inzuppare grosse fette di pane. […] L’accarezzai sulle lenzuola, attento a non toccarlo. Non era lui che sapeva di neve e candeggina, ma la stanza, i mobili e adesso anche io. Lui mi pare sapesse di mentuccia.[4]
Il romanzo è ricco di descrizioni
paesaggistiche che si intrecciano ai sentimenti e ai comportamenti del giovane;
i quadri ambientali mutano in modo repentino, come cambiano gli umori del
ragazzo in uno scenario di turbamento e
di disagio interiore.
Contai una decina di chiazze scure sul cielo azzurro che si allargavano lentamente e si fondevano fra loro, come se qualcosa le premesse l’una accanto all’altra. Gettai nel posacenere la mia gomma da masticare e presi una sigaretta dal pacchetto, l’ultima, poi aprii la finestra per soffiare il fumo fuori. Avevo fumato metà sigaretta e l’azzurro del cielo era già ridotto a un popolo di stracci difformi nel grigio, poi gli stracci divennero pori, poi i pori si chiusero e fu notte di pomeriggio, una notte argentata e metallica.[5]
Quello con Francesca è un amore
finito? Filippo cerca di dare un significato alla relazione, ne segue a tratti
le tracce, il suo disadattamento alle situazioni che via via si dipanano nel
romanzo lo rende maggiormente vulnerabile. I ricordi si mescolano a probabili
tentativi di interpretazione del forte amore che lo lega ancora alla donna; un
amore fisico, ma altrettanto viscerale, caratterizzato dalle continue immagini
che lo riportano a lei; sguardi, appuntamenti,
coincidenze, comunicazioni, discussioni, dispute e soprattutto la rievocazione
dei dialoghi in cui si mescolano l’inquietudine del giovane, le aspirazioni, i
diversi modi di concepire e di vivere la vita di entrambi.
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