Il dono dell'innnocente
di Milly Dandolo
Treves, Milano 1926
di Milly Dandolo
Treves, Milano 1926
Se
non fosse che il libro è ingiallito, picchiettato, slabbrato, se non fosse che
l’edizione (Garzanti 1942) è una ristampa dell’originale per i tipi di Treves del 1926, direi che lo stile de “Il dono dell’innocente”, di Milli Dandolo, è simile a quello di molti autori contemporanei, sorprendentemente moderno per l’epoca, seppur influenzato dal clima decadente. Non è un caso se la Dandolo, oltre ad essere
scrittrice per ragazzi - collaboratrice già a quattordici anni de “Il
giornalino”, insieme al Vamba di Gian Burrasca - è stata anche traduttrice di
capolavori stranieri. Si devono a lei versioni italiane e riadattamenti di
Dickens, Maupassant, Katherine Mansfield, Bernardin de Saint Pierre, D. H.
Lawrence e Barrie.
Milly
Dandolo (1885 – 1946) nacque a Milano ma visse prevalentemente in Veneto,
ambientando spesso i suoi romanzi a Venezia. Scrisse poesie, racconti per
ragazzi e narrativa per adulti. Di natura inquieta e sensibile, i temi
ricorrenti dei suoi scritti sono il dolore, collegato, come in questo caso,
all’innocenza dei bambini, e il ruolo fondamentale della maternità per la
donna. Sull’onda di un cattolicesimo ortodosso e manicheo, e di un imperativo
fascista che voleva le donne mogli e fattrici, viene esaltato il sacrificio
materno. La donna vive una condizione di sofferenza, di subalternità, che
riesce a sopportare solo attraverso la dedizione e l’amore per i figli. De Amicis trascolora in ideologia.
Le
donne della Dandolo non sono eroine ma vittime, incontrano uomini che le
stuprano oppure le sposano senza amarle a sufficienza, senza comprenderne l’unicità,
la sensibilità, il talento. Sviliscono la loro natura, le rendono sottilmente
infelici, rassegnate, rinunciatarie, incapaci di trovare
conforto nella fede. I loro compagni sono la fonte dalla loro sofferenza ma non
vengono caratterizzati, restano incolori.
La
Dandolo fa un passo indietro rispetto alla letteratura rosa di Liala e della
Delly, si rifà al tardo ottocento, ad Ada Negri, ma, forse, anche a certe
atmosfere irredente della Deledda, a certi crepuscolarismi alla Fogazzaro.
“La primavera aveva portato la gioia a tutte le creature del giardino e della campagna, anche alle più meschine. L’erba dei prati era spuntata, lucida e uguale, come una bella seta verde, ma anche i ciuffetti verdi tra le pietre dell’aia si drizzavano lietamente a bagnarsi nella stessa gioia di sole. Le piccole gocce di rugiada tremolavano sulle foglie dei gelsi, e poi cadevano sulle piccole erbe che hanno un nome solo per gli scienziati, e un sapore buono per le giovani galline che correvano qua e là, un po’ pazze e un po’ stupite.”
Lo
stile de “Il dono dell’innocente” non è banale e sbrigativo, ci sembra che il narrare abbia una piglio attuale, una fretta
moderna - come se Ada Negri avesse assunto l’ipersensibilità di Katherine
Mansfield – e, allo stesso tempo, delle pause di un languore decadente, senza bagliori
dannunziani, bensì con un afflato di ricerca spirituale che non trova pace
nella religione ma è, piuttosto, scavo interiore.
La
storia è semplice. Maria sposa Enrico, che può assicurarle un affetto tiepido,
una passione trattenuta perché quasi considerata sconveniente, e una vita all’insegna del benessere. Va a
vivere nella grande casa dove si aggira l’ombra burbera ma bonaria della vecchia
zia di lui. Ha un figlio, Fausto, bambino
dolce che la ricompensa della mancata gioia coniugale. Un giorno,
però, incontra un vecchio amore, ora suonatore girovago, e si abbandona ad una
serie di convegni clandestini notturni nel giardino della villa. Questi appuntamenti
amorosi la appagano, non tanto dal punto di vista del sentimento, quanto di un
rinnovato slancio vitale, di un rifiorire del corpo e dell’anima che stavano
appassendo. Non è un caso se grande risalto
è dato al contatto con la natura, all’impatto che essa ha sulla protagonista.
“Ad un tratto si accorse che i rami d’abete diventavano nitidi e sottili, quasi fragili, e che una luce bianca passava tra di loro, e bagnava l’aria e la terra, come una rugiada splendente. S’accorse che i grilli cantavano, con sommessa melodia, fitti e vicini, e qualche uccello invisibile rispondeva, ugualmente sommesso. Si sentì avvolgere da un odore misto, con bizzarra dolcezza, di spigo e di resina, di menta e di fieno.”
Viene
il momento, però, che, come Anna Karenina, Maria è posta di fronte alla
necessità di scegliere: l’amante le chiede di fuggire con lui. Lei non lo fa,
troppo debole per affrontare una vita di stenti, troppo legata al figlio per
abbandonarlo. Deluso, l’amante le promette che morirà per lei e, infatti, si lascia
uccidere in una rissa fra ubriachi.
Il
senso di colpa sommerge Maria, la porta al limite della follia. Per placarlo,
confessa tutto al marito, sperando nel suo perdono. L’uomo reagisce con crudeltà, allontanando il bambino dalla madre, e comportandosi con lei con
freddezza spietata.
“Forse”,
pensa Maria, “se lui fosse meno buono saprebbe capirmi.” Ma Enrico “è buono”, e
si arroga il diritto di punire e giudicare, è imbevuto di moralismo e sani
principi, non sa perdonare e teme l’influenza della donna perduta sul figlio.
Quando
Natale è alle porte, il piccolo Fausto, relegato presso una zia, non sopporta
più la lontananza dalla madre. Fugge di nascosto per portarle in dono una rosa,
il dono, appunto, dell’innocente.
Il
bambino viene ritrovato febbricitante, il romanzo si chiude con i genitori al
suo capezzale. Forse si salverà, forse no, non c’è dato sapere, l’importante è
che il sacrificio umano sia compiuto. Solo l’innocenza monda dai peccati, solo “l’agnello”
incolpevole riconcilia e purifica.
“Il piccolo Gesù era venuto, anche se nessuno aveva acceso la candelina rosea sul ramo d’abete. E nessuno di quelli che vegliavano il bambino malato, nessuno aveva mai sentito Gesù come in quella notte. Pareva anzi che lo vegliassero tutti insieme, e che udissero il suo respiro.”
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