Come un brivido nel mare
di Francesco
Grasso
Nemo
editrice, 2013
pp. 201
17,90
“Il faro di Sebastopoli rifulge lontano, a nord. La costa è rocciosa, disseminata di piccoli scogli a fior d’acqua che ricordano candele mozze. Su alcuni di questi scorgo minuscole fiammelle: lanterne di pescatori in cerca di granchi, indovino. Il cielo è sereno. Una falce di luna brilla ad ovest. Onde bambine si frangono piano contro lo scafo. C’è odore di gabbiani e di salsedine.” (pag 25)
Nonostante
qualche piccolo refuso, probabilmente sfuggito all’editor, la scrittura di “Come un brivido nel mare”, vincitore del
premio Nemo 2012, è molto buona e suggerisce un talento assodato. Dispiace che
sia al servizio di un contenuto dove molte delle premesse vengono disattese.
La
storia parte da uno spunto inesplorato e stimolante, il catastrofico maremoto
di Messina del dicembre 1908, ma s’intriga in sviluppi fantastici e
spionistici, senza riuscire ad aver ragione della troppa carne messa a fuoco.
“Come
un brivido nel mare” è un romanzo storico, perché mescola accadimenti e
personaggi autentici ad altri di pura fantasia. Appartengono alla realtà il
cataclisma avvenuto a Messina, il personaggio della regina Elena – colei che,
nella finzione, legge il manoscritto del
protagonista morente – l’incidente
occorsole, l’arcivescovo Arrigo Letterio, le navi straniere in rada nei giorni
del terremoto. La trama, però, si snoda immediatamente in fanta-storia, e
questo non sarebbe di per sé un difetto, sennonché l’elemento sovrannaturale e
fantastico qui mal si sposa con le vicende reali.
In
breve, la regina Elena, moglie di Vittorio Emanuele III, mentre presta aiuto
compassionevole ai feriti del terremoto di Messina, raccoglie le ultime
confidenze di un giovane soldato russo di bellissimo aspetto, Alec Vassilievic,
detto Krasivin, cioè avvenente – dove bello sta a indicare anche buono ed ingenuo - il
quale le consegna un taccuino in cui ha scritto il resoconto degli ultimi tempi
prima del cataclisma. Egli si rivolge in forma epistolare allo scomparso
fratello Piotr. Di tale fratello non si saprà più nulla e questa è una cosa che
un romanziere non dovrebbe mai fare, cioè aprire una strada nell’intreccio senza
poi percorrerla, lasciandola finire in un vicolo cieco.
La
narrazione si divide in due parti, la prima è ambientata a bordo del Makarov e
ricorda molto da lontano certe atmosfere di Conrad o di Melville, con
protagonisti maschili alle prese con la vita di mare, il cameratismo e il
bullismo. La seconda ha tutt’altro registro, si sposta a Messina, dove la realtà
locale è osservata attraverso la visione distorta di un marinaio russo, fino
all’epilogo che mescola il catastrofico col paranormale.
Il plot unisce gli elementi più svariati, cercando di amalgamarli fra loro,
dal terremoto di Messina, all’evento di Tunguska - ovvero la caduta di un meteorite in Siberia
nello stesso anno – alle vicissitudini storiche dell’arcivescovo Arrigo Letterio, alla
presenza di due navi, una russa e una britannica, al largo della città proprio
nei giorni del maremoto, alla visita della regina Elena, al culto mariano tipico
della realtà messinese, alla malavita locale. Ma a far da filo conduttore c’è una fastidiosa ed ingombrante presenza femminile, quella di Perla,
una spia russa che ha le fattezze e le movenze di un’eroina da videogiochi.
Onnipresente, si porta appresso una complicata avventura di spionaggio
internazionale, nella quale confluiscono laboratori russi di studio sul
paranormale e veggenti lebbrose capaci di scatenare primigenie forze telluriche
e scardinare millenari equilibri anche etici. Ella ha, inoltre, l’insopportabile
vizio di raccontare continuamente al povero Alec, nonché al lettore, miti greci
che poco hanno a che vedere con la storia, se non in qualche sotterraneo
collegamento dovuto alla passione dell’autore
per gli stessi, così come per le tradizioni russe.
Il
dubbio che la materia sia ingarbugliata,
deve essere venuto anche a Grasso, che lo ha manifestato nelle riflessioni
metanarrative della regina Elena: “la
guerra di spie evocata da Brasivin”, ella ci dice nella postilla n° 1, “mi ha lasciato assai scettica.” E
“ancora meno mi convince il coacervo di antiche, stravaganti superstizioni, miti greci raffazzonati e perverse congetture religiose che Brasivin pretende, per meglio dire teme, aver causato il terremoto.”
La
Vergine della Lettera, attorno alla quale ruota tutta la storia, somiglia più
alla Mater Matuta dei romani che alla madre di Gesù Cristo. Nel suo culto si
riscontrano correnti pagane segrete, sopravvissute ai secoli. Questo aspetto
è intrigante e avrebbe meritato maggior sviluppo, a scapito delle avventure che
si svolgono a bordo del Makarov.
“Io credo, Piotr, che qui in Sicilia il clero stia combattendo da secoli per affermare l’ortodossia delle Scritture sul “senso magico” con cui il popolo vive il rapporto quotidiano col trascendente. In questo senso il mito della Protettrice, che le gerarchie ecclesiali non sono mai riuscite ad assorbire del tutto nel Credo ufficiale, rappresenta una minaccia.” (pag 137)
La
seconda parte, quella siciliana, è forse la migliore, poiché si capisce che
Grasso, messinese, ama e conosce ciò che descrive: la vita rude dei pescatori, il
sudore della fronte, lo spirito di squadra, gli uomini e le donne del popolo in
lotta con una natura matrigna.
“E lì, mentre cantiamo e sudiamo e bestemmiamo insieme spruzzandoci l’un l’altro d’acqua salata, con le braccia che bruciano e la schiena che scricchiola e il legno del remo che graffia la pelle, mi colpisce all’improvviso una sensazione potente e magnifica. Una comunanza di sforzi e d’intenti, una solidarietà tra uguali, un’amicizia e un senso di appartenenza che in vita mia ho provato solo nei giorni migliori sul Makarov, tra i pochi compagni di cui veramente ero giunto a fidarmi. Riconosco nell’emozione, o almeno credo, ciò che Pasha chiamava “il vero Cameratismo”. Sentirsi non più un singolo ma parte integrante di un Equipaggio, un rito collettivo che va molto oltre indossare una stessa divisa o rispettare uno stupido regolamento.” (pag 131)
Se
c’è una morale nella storia, è che “la
tragedia è un faro che porta alla luce il meglio e il peggio che si nascondono
dentro ogni uomo”, il cuore di tenebra di ognuno di noi, potremmo dire.
Così, Serioga, l’antagonista malvagio (e brutto) di Alec, alla fine trova una
sua qualche redenzione, mentre i popolani amici si trasformano in avidi sciacalli. Ma c’è
anche un altro filone, che fa onore a Grasso, quello dove egli, per bocca del
suo protagonista, rinnega “l’arbitrio di chi comanda”, il fatalismo di chi si piega
ai soprusi dei prepotenti e alla mentalità mafiosa per la quale è da
considerarsi “protezione” il ricatto dei criminali.
In
conclusione, possiamo dire che una scrittura tesa come quella di Grasso, una
forma così poetica, potrebbe esprimere un contenuto strutturato in modo più consapevole,
magari patendo qualche rinuncia, in modo da non creare una mescolanza di generi
dissonante anziché sincretica.
Insomma,
non solo nello stile, ma anche nell’intreccio, vale la regola che è sempre meglio
togliere qualcosa, piuttosto che aggiungere.
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