di Henry Rider Haggard
Donzelli editore, 2004
1^ edizione: 1985
pp. 230
€ 21, 80
Sappiamo tutti che Henry Rider Haggard (1856 – 1925) è considerato a pieno titolo, grazie al ciclo di Ayesha - in particolare al best seller “She”, ma anche a racconti gotico avventurosi come “La signora di Blossome” - il precursore del fantasy e della letteratura d’immaginazione, alla stregua di Lovecraft, Poe, Verne e Stevenson.
Ma ci siamo mai
chiesti chi c’era prima di Wilbur Smith, delle cacce, delle savane infuocate,
delle lotte tribali fra zulu, del romanzo d’avventura per eccellenza? Ancora
lui, Henry Rider Haggard, con la sua famosissima opera “Le miniere di re
Salomone”, e il personaggio leggendario di Allan Quatermain.
Sia in “She”,
che ne “Le miniere di re Salomone”, l’avventura trova il suo nucleo centrale
nel rapporto con la natura selvaggia, incontaminata e vergine ma, soprattutto,
nell’esplorazione e nella scoperta di mondi nascosti, “perduti”, in gran voga
nel periodo vittoriano, ripresa da Kipling, Conan Doyle, Rice Burroughs, e
amplificata in seguito da Holliwood (si pensi a film come “Il mondo perduto:
Jurassic Park”). In Haggard si tratta di caverne, contenenti segreti e misteri
rimasti sconosciuti ai più (come non pensare alle miniere di Moria?) fin troppo
ovvi simboli di discesa nell’inconscio. Non stupisce che il ciclo di Ayesha
abbia attirato l’attenzione di Freud e Jung.
I tòpoi della letteratura fantastica sono
molti, come l’invecchiamento improvviso di Ayesha in “She”, che ci ricorda
quello di Morgana in Excalibur, o lo Spirito della Fiamma che ci riporta alla
scena finale di “Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta”. Anche qui è
l’abuso di magia che corrompe e distrugge invece di vivificare e rafforzare. Altro
topos è l’agnizione, con il
riconoscimento di Umbopa /Ignosi come legittimo re dei Kukuana ne “Le miniere
di re Salomone”.
Henry Rider Haggard
nasce nei pressi di Norfolk, dove trascorre un‘infanzia poco felice a causa
della salute malferma e delle difficoltà di apprendimento. Frequenta circoli parapsicologici
e si convince di essere egli stesso dotato di facoltà straordinarie. Parte per
il Natal dove verrà catturato dal fascino dell’Africa meridionale. Scrive “Le
miniere di re Salomone” per dimostrare di saper inventare una storia alla pari
con “L’isola del tesoro” di Stevenson, dopo che alcune sue novelle non hanno
incontrato il successo da lui sperato.
Il romanzo è dell’85 e diventa subito
un best seller, seguito da “She”,
nell’87.
Rider Haggard viaggia per il mondo, visita l’Egitto, come Wilbur
Smith, e il Messico, traendo spunti per nuovi
libri e imparando a confezionare velocemente romanzi d’intrattenimento e
di successo. Il personaggio di Quatermain dà vita ad altre narrazioni, per la
maggior parte inedite in italiano.
Quatermain,
detto “Macumazahn”, colui che scruta nella notte, è il modello de “il grande cacciatore
bianco”, non anticolonialista ma comunque giusto e buono con gli indigeni. Predatore
infallibile ma non sanguinario, si definisce sempre “un uomo mite”, addirittura
“un po’ vile”, e trova l’eccesso di massacro vagamente “nauseante.”
Haggard è un
colonialista convinto, sente la supremazia bianca come indiscutibile e sono sgraditi
per il nostro palato moderno certi suoi atteggiamenti di superiorità verso gli
indigeni e certe scene di caccia che hanno la spietatezza di quelle di Hemingway
senza averne la bellezza ma, almeno, senza il compiacimento cruento dell’autore
di “Verdi colline d’Africa”.
Avventura, poca
sottigliezza psicologica, nessun conflitto interiore, grandi scene di caccia e
di guerra come si addice alla più tipica letteratura d’evasione. E, tuttavia, a
tratti, è presente un’insolita riflessione filosofica sull’uomo, sul suo posto
nel ciclo della vita e sulla sua caducità.
“Eppure l’uomo non muore finché il mondo, allo stesso tempo sua madre e sua tomba, resta. Il suo nome è certo dimenticato, ma il suo respiro agita ancora le cime dei pini sulle montagne, il suono delle sue parole riecheggia ancora nell’aria; i pensieri nati dalla sua mente li ereditiamo oggi; le sue passioni sono la nostra ragione di vita; le sue gioie e i suoi dolori sono nostri amici… la fine, dalla quale fuggiva atterrito, sarà di certo anche la nostra! Certo l’universo è pieno di spiriti, non velati spettri da cimitero, bensì gli inestinguibili e immortali elementi della vita, che, nati una volta, non possono mai morire.” (pag 143)
Da ricordare
che il nostro Emilio Salgari pubblicò con lo pseudonimo di Enrico Bartolini un adattamento
del romanzo, dal titolo “Le caverne dei diamanti” nel 1899. Memorabile anche il
film del 1950 con Stewart Granger nei
panni di Quatermain, e Debora Kerr, sebbene, a detta dello stesso narratore, “non
c’è una sola sottana in tutta la storia.”
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