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#Scrittori in Ascolto - Con Mario Desiati

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«Mi piacciono i paesi di confine, quelli che celano i minimi dettagli. Sempre in bilico, terre di transito, di scontro. Quando ho maturato questa passione, ho cominciato a studiare le loro leggende. Poi, a un certo punto mi sono accorto che non avevo indagato sul mio paese».

È cominciato con questo accenno quasi antropologico l’incontro con Mario Desiati alla biblioteca di Arezzo. Il suo paese è Martina Franca, bianca e baronale, un gioiello di quella Puglia abbarbicata sulle Murge che sembra lontana dal mare. Poca umidità, anzi si respira aria piacevole perfino in agosto e schiere di tarantini risalgono la sera la statale per Fasano in cerca di frescura. Fari notturni che a seguirli a ritroso muoiono nel petrolchimico, le cui luci restano il segnale della devastazione.



Quali leggende, quale spettro si aggira allora per Martina Franca?

«A Martina si aggirano le spose infelici. Fantasmi di donne che si sposavano e si suicidavano lanciandosi nel “pozzo della sposa”. Ovviamente erano vittime di matrimoni combinati e quello che è in genere visto come il giorno più bello, portava solo mestizia. Fino a spingere a un gesto estremo. La storia raccontata ne “Il paese delle spose infelici”, in fondo, è un antidoto a questa infelicità».

Poi c’è Taranto e il petrolchimico.

«A Taranto sono cambiati perfino il clima e la struttura sociale. Un grande sindacalista pugliese come Giuseppe Di Vittorio lo aveva capito prima di tutti parlando di metal-mezzadri e non di metalmeccanici. Quello che non è possibile spiegare e studiare con le classiche categorie della sinistra è proprio il laboratorio Taranto: un operaio dell’altoforno non rinuncerà al benessere derivante dall’impiego nel grande complesso siderurgico. Rinuncerà piuttosto alla coscienza di classe. La sua vita era scandita dalle ore in fabbrica e dal ritorno a casa quando poteva coltivare il suo appezzamento di terra».


Nella terra tarantina, martinese, pugliese esiste un tratto caratteristico, oltre ai trulli. Sono i muretti a secco.

«La storia raccontata ne “Il libro dell’amore proibito” nasce proprio da un muretto a secco. Sono costruzioni fatte pietra su pietra senza malta. Le pietre uscivano fuori dalla terra dissodata e venivano riunite in questi muretti che non dovevano essere neanche troppo alti perché l’idea della proprietà privata era solo mentale, violabile materialmente con un semplice salto. Anzi, più alto era il muro e più crescevano le motivazioni per scavalcarlo. Grazie agli interstizi tra le pietre senza malta, l’acqua piovana dalle strade filtrava nei campi garantendo fertilità. E tra le pietre si annidavano animali come scoiattoli, serpi, gechi, erano micro-mondi, piccoli biosistemi che davano vita a pietre che parevano muoversi».

Ecco l’atmosfera dei libri di Mario Desiati, la sua cifra stilistica dove la Puglia arcaica resiste e il senso primitivo di una terra si specchia nella sua dimensione attuale. In un conflitto geologico-temporale.


«Un conflitto che investe i miei protagonisti: Veleno e Donatella de “Il libro dell’amore proibito” hanno veramente sbagliato epoca. Sono ottocenteschi, perché al di là del loro amore coltivato attraverso le lettere, la parola, sentono di avere dentro un’età segreta che non corrisponde a quella anagrafica. D’altronde succede di essere adolescenti e pensare da adulti e quando si è adulti di voler tornare adolescenti».


E il mare dove, dice Mario Desiati, “antiche religioni sostengono che si rifletta il volto di Dio”?

«Il mare va visto in questa sua enigmatica bellezza. Pochi sanno che dinanzi a Taranto esistono delle isole stupende che sono le Cheradi dove vivevano i lavoratori dell’arsenale con le loro famiglie. Da quando hanno costruito il siderurgico, sono disabitate, praticamente dal 1963. Abbiamo rovesciato la storia: prima dal mare arrivavano i saraceni, gli abitanti delle coste e dell’interno tremavano al pensiero, adesso è dalla terra che è venuta la devastazione del mare. Peraltro, tanti santi e reliquie che interessano feste, patroni e processioni pugliesi, più in generale del sud Italia, sono giunti dall’oriente. Il mare nei secoli ha portato bellezza, senso della comunità, non solo invasioni. Ecco che lo scrittore tenta di fornire un altro punto di vista, non deve dire cosa sia bene e cosa sia male, offre uno spunto in più di cui il lettore può alimentarsi».

Anche Veleno e Donatella, oppure Annalisa, il Veleno delle “spose infelici”, Zazza sono al di là di questa dicotomia.


«La dico in altri termini: mentre scrivevo “Il libro dell’amore proibito”, in particolare la parte centrale, quella che si gioca tutta sul conflitto tra capriccio, voglia, desiderio incontrai Goffredo Fofi che mi consigliò di leggere un racconto di Vasilij Grossman, “La strada”. In esso si narra la storia di un mulo che vive vicende incredibili che lo portano nei teatri della seconda guerra mondiale. Alla fine è in mano ai russi che lo costringono in un recinto pieno di cavalli che ovviamente lo guardano con superiorità. Quando il mulo sta per morire i russi decidono di dargli un’ultima giornata e lo legano a un carro assieme a una cavalla. A un certo punto un colpo di coda della cavalla, come se il mulo fosse sfiorato da un fazzoletto di seta, lo fa girare: la cavalla sta lanciando sguardi maliziosi. E per la prima volta nel racconto il mulo raglia. Mentre la cavalla nitrisce. Insieme mangiano e bevono l’acqua dallo stesso secchiello, la cavalla si avvicina al mulo e appoggia la testa sul suo collo. I respiri dei due animali si confondono e l’uno raglia, l’altra nitrisce. Per un mulattiere, stanno tubando. Per un altro mulattiere, piangendo. È così che ho capito che una relazione può essere vista come una carezzevole comunicazione oppure un pianto a seconda dell’osservatore esterno. In realtà, la verità potrà conoscerla solo chi vive la relazione stessa. Nessun altro».