Il conte di Montecristo
[Titolo originale: Le Comte de Monte-Cristo]
di Alexandre Dumas
Oscar Mondadori
Tutti noi, alle scuole medie e poi alle superiori, ci siamo scontrati
con il sommo capolavoro della letteratura italiana dell’Ottocento: “I promessi
sposi” di Alessandro Manzoni. E una buona parte di noi ha concepito un odio
irrefrenabile per le vicende dei due giovani promessi. Ingabbiati da analisi
del testo, crocifissi da significati sottesi, incastrati da sottolineature sul
periodo storico abbiamo perso di vista una cosa davvero importante: ovvero che
“I promessi sposi” è un gran bel romanzo. C’è una trama piena di colpi scena,
pathos, un certo grossolano umorismo e personaggi di grande spessore. Peccato
che ci abbiano obbligato a leggerlo; perché se lo avessimo scoperto da soli,
probabilmente, lo avremmo consigliato ad amici e parenti.
Gli studenti francesi hanno
vissuto un simile trauma letterario a causa di un altro Alessandro: Alexandre
Dumas padre. Probabilmente, costretti a sottolineare i riferimenti storici e a
riflettere sui costrutti linguistici, concepiscono la nostra stessa antipatia
per un’opera eccezionale: “Il conte di Montecristo”.
Pubblicato a puntate per ben due anni, dal 1844 al 1846, oggi lo
avremmo definito, in modo ingiusto e poco lusinghiero, come soap opera. Il
romanzo d’appendice, o feuilleton, prevedeva la pubblicazione dell’opera a puntate.
Se noi oggi aspettiamo con ansia l’uscita dell’ennesima puntata di un telefilm,
all’epoca aspettavano appostati davanti alle edicole per accaparrarsi la nuova
pubblicazione.
La trama, vuoi per sentito dire o per i molti adattamenti
cinematografici e televisivi che ne sono stati fatti, è nota. Edmonde Dantès è
giovane, ma sta per vedere i suoi sogni realizzati: a breve diventerà capitano
sul bastimento “Faraone” a soli 19 anni e sposerà la bellissima Mercedes della
quale è innamorato da sempre. Tutta questa fortuna fa però invidia a molti:
Danglars, scrivano del “Faraone”, si vede soffiare la possibilità di una
promozione e Fernando, rivale in amore, non sa rassegnarsi alla perdita di
Mercedes. I due ordiscono così un piano contro Dantès: con una lettera anonima
accusano il giovane di essere una spia bonapartista che trama per il ritorno di
Napoleone dall’Elba. Per intrighi politici ed interessi personali, Edmonde
viene imprigionato il giorno stesso del suo matrimonio e lasciato in una
segreta per 14 anni. Qui incontra il sapiente Faria che gli regala tre cose: l’idea
della vendetta,
Nelle ore di meditazione, che per lui erano passati come minuti secondi, aveva preso una terribile risoluzione e fatto un formidabile giuramento. (..)“Sono mortificato di avervi aiutato nelle vostre ricerche e di avervi detto ciò che vi ho detto.”“Perché?” domandò Dantès“Perché vi ho inoculato nel cuore un sentimento che prima non c’era: la vendetta.”
una vasta cultura,
“Ahimè figlio mio” disse “la scienza umana è molto limitata, e quando vi avessi insegnato le matematiche, la fisica, la storia e le tre o quattro lingue vive che parlo, voi sapreste quello che so io. Tutta questa scienza potrei farla passare dal mio spirito nel vostro in due anni.”
e l’ubicazione di un prezioso tesoro, nascosto sulla piccola e
rocciosa isola di Montecristo.
“Questa carta, amico mio” disse Faria “ora ve lo posso confessare perché vi ho conosciuto meglio, questa carta è il mio tesoro di cui, da questo momento, la metà è vostra.”
Alla morte del dotto compagno, con una fuga che merita l’abusato
aggettivo di “rocambolesca”, Dantès si appropria del tesoro e nascoso e
riemerge alla vita sotto il nome di Conte di Montecristo, la maschera che da
allora porterà. Dedica quindi la sua vita e le sue sterminate ricchezze nell’ottenere
vendetta verso coloro i quali lo fecero imprigionare, ormai uomini ricchi e
potenti della Parigi monarchica.
Chiudendo con un tonfo lo spesso volume si ha l’impressione di aver
letto almeno tre diversi romanzi. Non solo perché si tratta di un romanzo
d’appendice doveva tenere ben vivo l’interesse del lettore, ma perché raramente
si assiste ad una così completa metamorfosi di un personaggio letterario. Il
giovane Dantès che viene imprigionato nel castello d’If è un puro, naive nel
senso più profondo del termine. Il conte di Montecristo è colto, raffinato,
esperto di tutte le arti e spietato; riporta quasi i tratti del Dracula
stokeriano nell’estremo pallore e nelle mani sottili. Quando, compiuta la sua
vendetta, dichiara la sua vera identità a Fernando anche noi subiamo lo shock
della rivelazione: quasi non ricordavamo più chi si celava sotto la maschera
intarsiata del conte di Montecristo.
La narrazione è prolissa e talvolta si seguono, con dovizia di
dettagli, le vicende di altri personaggi che sembrano non avere nulla a che
fare con il filone principale, ma che si rivelano essere solo un filo nel
complicato arazzo che il conte tesse per incastrare i propri nemici. Ogni
tassello va a posto nel correre delle ultime cinquanta pagine e non fa
rimpiangere di aver aspettato così tanto.
Da lettrice donna, posso solo appuntare la pochezza delle figure
femminili che sono o un modello di virtù angelicale, e quindi poco interessanti,
o delle spietate ed immorali avvelenatrici. Si salva solo Eugenia, figlia di
Danglars e artista dallo spirito libero che però, si intuisce tra le righe,
viene velatamente condannata dallo stesso autore. Ma non è certo questo il
romanzo adatto per la discussione del ruolo della donna in letteratura.
Ci sono persone predisposte al vizio e all’assuefazione: diciamo solo
che, se fossi stata una lettrice di metà Ottocento, avrei aspettato con molta
ansia l’uscita della puntata del Conte di Montecristo. Leggendolo a quasi due
secoli dalla pubblicazione ho avuto la fortuna di non farmi così divorare dalla
curiosità.
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