«Chi scrive sa di non avere davanti un avvenire luminoso, ma al massimo una breve sopravvivenza dignitosa. Sa, d’altra parte, che sarebbe illusione attribuire a un bilancio una funzione pedagogica, dato che l’umanità rifugge sempre di più dall’esercizio della memoria. Il bilancio serve dunque soprattutto a chi lo fa; per gli altri funge, semmai, da tassonomia» [1].
Con questa considerazione Cesare Segre apriva una raccolta di
suoi interventi sull’ultimo Novecento, Tempo
di bilanci. Penso a questo titolo, mentre percorro le pagine del Meridiano che raccoglie tutti gli scritti critici della sua
lunga carriera intellettuale, uscito proprio pochi mesi fa, ed è assai difficile arrischiare, anche in minima
misura, un bilancio dei suoi studi, e insieme a questi della
preziosa eredità che ci ha lasciato. Se una cosa, infatti, si può affermare con
certezza, è che le ricerche di Segre sono state tanto varie e eccezionali nei
loro risultati da poter trovare una degna controparte, nel nostro Novecento,
soltanto in quelle di Gianfranco Contini (il quale, tra l’altro, fu uno dei suoi maestri).
Non è un segreto: per chi intraprenda studi letterari in Italia, Contini e
Segre sono – e resteranno, immuni alle mode – due imprescindibili
maestri, sulle cui pagine imparare la salda armonia del metodo e la fiamma
di un'insaziabile curiosità. Che ci si voglia occupare della lingua dei volgarizzamenti medievali
o di Primo Levi, che si voglia studiare l’Orlando
furioso o Se una notte d’inverno un
viaggiatore, Vincenzo Consolo o la Chanson
de Roland, il Don Quixote o Carlo
Emilio Gadda (mi fermo qui ma potrei proseguire), Cesare Segre sarà sempre un
passaggio obbligato.
L’attività di Segre ha attraversato
praticamente tutto il secondo Novecento, e con questo le diverse correnti
culturali che si sono avvicendate, ma alcuni elementi sono stati sempre
costanti – di una costanza palpabile, non forzata – nelle sue pagine:
1) L’idea che indagine teorica e quella concreta
sui testi debbano essere saldamente intrecciate, fatto che si riflette nella costante
ricerca sui rapporti tra lingua, cultura e società, come strumento per capire
le forze ordinatrici del mondo («dato che il mondo, prima di esser nominato, descritto,
interpretato, non è che caos: il senso del mondo è il nostro discorso sul
mondo, e il discorso del mondo è possibile solo entro una collettività» [2]). Attenzione,
però, a non confondere l’interesse per i rapporti socio-culturali come uno
storicismo approssimativo:
«Leggere a fondo e interpretare un testo ha costantemente significato per Segre cercare di spiegare i testi coi testi a cui è ricorso l’autore, perché ogni testo cresce sempre su altri testi, i propri e quelli degli altri, e un’opera o una sezione di essa non è una monade, non vive da sola, ma è un rapporto, vive dentro un insieme, un sistema, una struttura» [3].
2) L’indomabile curiosità, mai fossilizzatasi su
un solo modello teorico: una vera e propria «insaziabilità
metodologica» che lo ha spinto negli anni a sperimentare sempre, dalla
stilistica alla critica delle varianti e alla critica verbale, dalla semiotica
alla narratologia. L’introduzione degli studi semiologici in Italia – nonché il
recupero diretto dei formalisti russi – si deve, sostanzialmente, a lui. Non si
può però parlare di Cesare Segre soltanto come di un «semiologo» (cosa che, dopo
la sua scomparsa, molti necrologisti dell’ultim’ora hanno fatto su varie
testate nazionali), ma soprattutto non si deve credere che questa sua curiositas abbia significato una
rinuncia, in qualche modo, post-moderna alla fiducia nella ricerca diretta,
«scientifica» sui testi (postilla personale: rinuncia che ultimamente sembra andare
molto di moda):
«Segre (che è rimasto nel corso degli anni sostanzialmente un filologo) è ancora tra quanti combattono per la vita (del testo) contro la morte (del testo). Non intende consegnare al lettore ogni responsabilità del significato, non crede che il testo possa essere occasione per metadiscorsi incontrollati […] Conta innanzitutto il primato del testo, che va affrontato al fine di interrogarlo e rispettarlo nella sua autonomia» [3].
Avrei potuto
volgere i verbi di questa citazione al passato, ma una lezione intellettuale come
questa non perderà mai la propria attualità. Il testo è per Segre realizzazione linguistica, gesto stilistico ma anche prodotto storico e sociale, e nessuno di questi aspetti va dimenticato. Proprio per questo non ha mai amato la cosiddetta «critica pura», in cui si dissimula una vera e propria competizione con l’autore (in una divertente pagina di Ritorno alla critica i critici puri sono tratteggiati con caratteri faunistici, come cuculi e pavoni che invece di rendere un servizio al testo mirano solo a un esercizio retorico), né i rinunciatari:
«Qualcuno parlò, a proposito della mia attività, di bigamia: da una parte la moglie legittima, la filologia, dall’altra la moglie di complemento, la critica letteraria. Credo che sia uno schema abbastanza esatto» [4].
Questa pagina poteva, e sarebbe stato giusto e
legittimo, tessere l’encomio di uno dei più grandi intellettuali del Novecento
italiano ed europeo; poteva limitarsi a un rapido catalogo di opere e percorsi
tematici; ma è stato forse utile raccontare, anche se brevemente, ciò che
Cesare Segre ha dato agli studi letterari e alla critica, e quanto potrà ancora
donare a chi si accosterà ai suoi scritti. Nella sua “quasi-autobiografia”,
Segre confessava:
«Vittima delle troppe curiosità e del divertimento intellettuale, sono stato un grande dissipatore. Forse qualcuno ripescherà qualcosa di quanto ho lasciato in giro, o forse arriverà indipendentemente a risultati simili. E ora una considerazione generale. Ogni studioso ha passato la vita a svolgere esperienze, ammassare conoscenze e assimilare interi mondi culturali; ha imparato lingue e dialetti, ne ha registrato le sfumature e le fasi storiche, persino le cadenze; incontrando centinaia d'individui, ne ha abbozzato una tipologia e ha imparato le tattiche necessarie per prendere contatto e scambiare idee ed impressioni con loro [...] Quando l’individuo muore, muore con lui questo tesoro di conoscenze ed esperienze; viene, ad essere crudelmente franchi, azzerato. E gli altri ricominceranno ad esperire e registrare e assimilare, per poi finire allo stesso modo. Quanto spreco. […] Più in generale, posso sperare che il mio lavoro, a parte l’eventuale insegnamento che avrà fornito, abbia contribuito ad approfondire la comprensione delle cose, e perciò ad aiutare qualcuno a essere miglior inquilino del nostro mondo» [5].
Mi
piace leggere queste righe, oltre che come una confessione, come una sfida: a
tener vive le pagine di Segre non soltanto per il loro valore culturale
o accademico, ma come importante eredità, etica e intellettuale, di un uomo. In
fondo, è proprio la grande lezione degli studi umanistici.
Laura Ingallinella
[1] C. Segre, Tempo
di bilanci. La fine del Novecento, Einaudi, Torino 2005.
[2] C. Segre, Testo
letterario, intepretazione, storia: linee concettuali e categorie critiche,
in Letteratura italiana, diretta da
A. Asor Rosa, IV. L’interpetazione,
Einaudi, Torino 1985.
[3] Gian Luigi Beccaria, Introduzione a C. Segre, Opera
critica, Mondadori, Milano 2014.
[4] C. Segre, Ragioni
di una scelta, in Id., Opera critica,
Mondadori, Milano 2014.
[5] C. Segre, Per
curiosità. Una quasi-autobiografia, Einaudi, Torino 1999.
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