Prima che la notte
di Claudio Fava e Michele Gambino
Baldini&Castoldi, 2014
€ 16,00
pp. 152
A trent’anni dalla morte di Pippo Fava molto è stato detto e molto è stato scritto.
Recentemente la Baldini&Castoldi ha pubblicato un
breve libro, “Prima che la notte”, scritto a quattro mani da Claudio Fava e
Michele Gambino. Due giornalisti, due amici di lunga data, e due figli. Il
primo figlio anche di sangue, ma entrambi figli del giornalista e dell’uomo che
li ha pescati carusi, e li ha fatti
diventare fucina di pensieri e di parole nelle redazioni del “Giornale di
Sicilia” prima e dei “Siciliani” poi.
“Prima che la notte” non è la storia della morte di Pippo
Fava, ma di come quei ragazzi hanno vissuto quella notte e si sono risvegliati,
al mattino, orfani. È un libro che parla delle scelte da prendere quando si
diventa adulti e quando lo si fa in una città come Catania. Della differenza
che c’è, come scrive Gambino, tra il combattere e l’odiare, tra il comprendere
e l’accet tare. Non viene raccontato l’eroe, nelle pagine dei due amici, ma
l’uomo con le sue abitudini e la sua grande umanità, e un rapporto di
filiazione non sempre facile.
Le pagine alternano le diverse prospettive di Fava e
di Gambino. Le loro parole incrociate hanno il dono di far emergere non l’oscurità di una morte, ma l’amore per una professione e l’energia
che la ricerca e la scrittura della verità comportano.
Dice che è arrivato il momento di essere padroni del nostro destino. C’è qualcosa di più bello da dire a un ragazzo di ventitré anni con la testa piena di confusione fantasie su se stesso? Stiamo per dichiarare una guerra.
La guerra alla mafia è raccontata senza nessun moralismo o
banali e illusorie sviolinate. La scrittura del libro è asciutta perché gli
autori sono abituati a scrivere di notti tragiche e del male legato a un
bellissimo triangolo di terra. Per farlo, e per farlo bene, le parole si devono
saper dosare con abilità. E quelle poche parole di questo breve libro sono
magistralmente distribuite sulla pagina. La memoria non è mai oggetto di abuso,
e l’uomo e i suoi figli ritornano a noi trent’anni dopo con grande dignità e
vitalità.
Giovedì 18 aprile i due autori hanno presentato “Prima che
la notte” alla libreria Feltrinelli di Catania. Ad accoglierli un pubblico che
non voleva più andar via, e molti amici. Alla fine della presentazione i due
autori sono stati così gentili da sedersi con me e rispondere a qualche mia
domanda.
Perché questo libro
e perché ora? Qual è il rapporto che lega memoria e parola trent’anni dopo la
morte di Pippo Fava?
C.F. La parola col tempo si affina e diventa più efficace.
Più incisiva, più autentica. Non avevamo voglia di scrivere un libro su mio
padre, volevamo raccontare di noi, di quel grumo di vite che si erano raccolte
attorno al giornale. È stato un lavoro di scrittura molto semplice: ognuno non
sapeva cosa avrebbe scritto l’altro e così si sono intrecciati diversi punti di
vista. E i diversi modi con cui si diventa vecchi.
È un libro che
scuote e che allo stesso tempo fa sognare. Ci si identifica con quei ragazzi e
si sogna di essere coraggiosi come loro, di condurre inchieste contro la mafia,
di scrivere, di agire finalmente. Ma il libro finisce con un’allegria che dura
solo per lo scatto di una foto. È solo una descrizione malinconica o c’è un
messaggio da recepire?
M.G. Non c’è nessun messaggio finale. Il libro racconta
un percorso. Racconta la durezza drammatica del dopo cinque gennaio 1984. Non
avremmo potuto scriverlo all’epoca, perché sarebbe stato un libro rabbioso
pieno di mafiosi, pieno dei nemici di Pippo Fava. A me, invece, andava di riflettere sui nostri
errori.
Retoriche a parte,
fare i giornalisti e scrivere liberamente appare oggi ancor più difficile di
trent’anni fa. Spesso raccontare di Catania e della Sicilia è divenuto un
cliché: quello della terra amata e dannata, che ci lega ma che ci manda via.
C’è chi cerca gli strumenti per farlo fuori da qui, ma non è raro essere
accusati di codardia, perché la battaglia – forse – qui dev’essere combattuta. Cosa
dovrebbe fare un giovane Siciliano
oggi?
C.F. Andare fuori deve essere vissuto in maniera meno
drammatica. È bene andare fuori anche quando non è solo necessario farlo:
perché per scrivere bisogna guardare il Paese intero, non solo la città. Quello
del giornalismo è un mestiere che ha subito la crisi come gli altri, ma oggi ci
sono strumenti che trent’anni fa non c’erano. Peppino Impastato, da precursore,
si inventò una radio. Ancora oggi le radio offrono tanto, così come il web
chiaramente.
C’è una relazione
tra il vostro libro e “Mentre l’orchestrina suonava gelosia” (Mondadori, 2011)
di Antonio Roccuzzo, anche quello un libro su Pippo Fava e sui suoi reporter?
M.G. Il libro di Antonio, anche se pubblicato da qualche
anno, è stato scritto molto tempo fa. Era il libro giusto da scrivere in quel
momento. Il nostro andava scritto quando il tempo ci ha concesso il privilegio
di essere più lucidi. È un libro che racconta la voglia di restare
umani.
Dal libro di Roccuzzo è stato tratto un docufilm, “I
ragazzi di Pippo Fava”. È stato proiettato per la prima volta la sera del 23
dicembre scorso, al Teatro Massimo Bellini di Catania. Una tra tante altre
commemorazioni ufficiali che si sono accavallate durante l’inverno appena
passato, l’inverno dei trent’anni della morte e di trent’anni di ricordo. Quella
sera al Teatro Bellini - c’ero anche io e per questo posso raccontarlo - a
vedere quel film imperfetto interpretato da bravi e giovani attori, c’era un
pubblico imperfetto. Ad applaudire c’erano politici, amministratori e
funzionari che condividono le colpe di chi trent’anni fa ha ucciso Pippo Fava.
E che probabilmente oggi non hanno nemmeno gli strumenti per saperlo riconoscere
un bravo giornalista. Ma il teatro quella notte era pieno di giovani, della
stessa età che avevano i “Siciliani” quando sono stati raccolti da Pippo Fava
per formare una redazione. E si percepiva lo stupore di una generazione che sa ancora indignarsi e che vuole ancora scrivere. Di Catania e
della sua notte.
Serena Alessi