(Asylum)
di Patrick McGrath
Adelphi, 1998 (1996)
pp. 296
Per una di quelle coincidenze astrali che solo i libri sanno regalare, mentre avevo deciso di leggere “Follia”, anzi lo stavo proprio finendo, mi sono imbattuto in una discussione sui social avente per oggetto il romanzo di McGrath. Una gentile signora ne elogiava ogni riga, evidentemente folgorata, e i primi commenti restavano sulla scia dell’entusiasmo:
Letto tanti anni fa, capolavoro; Bellissimo; Strepitoso; La battuta finale credo sia una delle migliori di tutta la storia della letteratura, obbligatorio.
E così via. Finché, in punta di piedi e con la premessa di un pardon, una ragazza lanciava un’opinione controcorrente:
piuttosto appassionante sul momento, ma francamente mi ha lasciato davvero poco: uno di quei libri che nella mia memoria di lettrice perdono di consistenza...
Il vaso di Pandora scoperchiato: come una battaglia in cui le sorti si rovesciano all’improvviso quando pare tutto deciso, i detrattori ritrovavano fiato. Fino al cinismo, straordinario comunque, del commento conclusivo:
Letto anni fa. Consigliato da un tipo che lo leggeva piangendo dopo che l’amata lo aveva abbandonato. Lasciato a metà, non ricordo nulla. Chissà come sta il tipo...
Parto da questo aneddoto e da questa breve carrellata che il web avrà già fagocitato perché in effetti il libro lascia una strana sensazione. Se durante la lettura porta a picchi di entusiasmo, quando comincia a sedimentarsi può mostrare certe carenze. La storia è particolare, l’io narrante è lo psichiatra Peter Cleave che lavora in un manicomio criminale vittoriano alle porte di Londra nel 1959. Come vice-direttore dell’istituto viene assunto Max Raphael, che ha una moglie bellissima e insoddisfatta: Stella. Quest’ultima comincia, facendosi travolgere da essa, un’ossessiva storia d’amore con Edgar Stark, artista detenuto per avere commesso un delitto efferato, vittima la moglie di cui era geloso. Edgar Stark è in cura da Peter Cleave, che riporta nel suo racconto i fatti e l’analisi della psiche dei due innamorati che finiranno per distruggere se stessi e coloro che vivono accanto. Da questo intrigo scatta una morbosa empatia per gli amanti “folli” più che per i “normali” che pretendono di vivere secondo convenzioni e regole. Lo stile del racconto, se vogliamo, può ricordare “L’avversario” di Carrère, una cronaca di cui uno scrittore si appropria con ritmo serrato.
Credo tuttavia che la chiave di lettura migliore sia la sfida non tanto tra Stella e il marito Max, per quanto sia insita nel progredire della catastrofe, o tra Stella e Edgar che a un certo punto passano alcuni mesi nei bassifondi malfamati di Londra dopo la fuga di lei dalla famiglia, ma tra Edgar e lo psichiatra Peter. È una sfida che l’autore tiene a livello subliminale, tra le righe, ma ci sono degli accenni da cogliere costantemente.
Il marito Max è destinato a perdere e lo si capisce dal primo capitolo, progressivamente è coinvolto in uno stato di decadenza psico-fisica che lo riduce a relitto. Fra Edgar e Stella non c’è partita, nei confronti del criminale la donna manterrà un legame paranoico che si confermerà nel finale. Non che Edgar non subisca Stella, ma più che della persona in sé, egli è prigioniero di fobie che ogni donna amata scatena in lui.
La parte affascinante del confronto fra pazzia e normalità corre lungo la prospettiva scandita dai due uomini, l’uno paziente dell’altro. E questo perché pure Peter è innamorato di Stella. La terapia che adotterà nei confronti della donna, caduta sotto le sue cure con il prosieguo del romanzo, è ambigua quanto i suoi comportamenti verso Max, professionalità e sentimenti si aggrovigliano in un viluppo che incide sulla lucidità della diagnosi. Quando Peter sente di avvicinarsi a un destino condiviso con Stella, ecco che invece la donna affermerà fino alle estreme conseguenze il suo legame con Edgar che formalmente è rientrato sotto la tutela di Peter ma conduce ancora una sua battaglia rancorosa.
Se questo scontro maschile per una femmina, vecchio quanto la civiltà occidentale, pensiamo alla “Iliade”, era il filo conduttore, credo che alcune parti di “Follia” si prolunghino troppo, seppur McGrath vi inserisca episodi-chiave. Fatti che provano a risollevare la struttura narrativa diventata però debole. Qui sta il limite, allora, di un romanzo che resta comunque da leggere per cogliere certi abissi umani.