

Il
tracciato biografico delle lettere (43 in totale) va dal 1924 al 1948
e ha svariati destinatari, dal suo amore adolescente a Diego Rivera,
suo marito due volte, dagli amici al suo medico di fiducia ai suoi
malcelati amanti e l'ultima, al presidente del Messico Alemán.
Nell'indice dei contenuti, alle lettere seguono altri scritti, in
ordine: una poesia, l'immagine di un biglietto a caratteri ornati,
gli appunti di una conferenza informale in cui descrive il suo Mosè,
un'altra poesia, un saggio del 1949 che è un ritratto di Diego
scritto per il catalogo di una mostra, un invito, una dichiarazione
tratta dall'autobiografia e infine una poesia a Diego.
Come
la mostra, anche questa collezione di lettere ha un corredo corposo
di fotografie e autoritratti. E in tutti questi Frida non ride mai;
qualche volta adombra un sorriso, ad esempio nel ritratto insieme a
Rivera del '39, ma sembra che debba sempre durare poco. Complici
anche le sopracciglia quasi giunte che a lei non parevano affatto un
inestetismo, ma anzi una sottolineatura del proprio femminino. Nelle
Lettere Frida non discute mai la sua opera: non occorre. Le
sue carte epistolari rispondono, piuttosto, a un bisogno elementare e
infantile di comunicazione e di amicizia. E si attestano sulla
narrazione – per la quale ha un talento – della vita domestica
che presto coinciderà con la vita coniugale; le traversie del suo
corpo, insultato troppe volte (prima la poliomielite, poi l'incidente
sull'autobus che la spezza in un numero determinato e indeterminato
di punti); i periodi di magra, in cui si affanna a cercare compratori
per le sue tele; fugaci ma sanguinose requisitorie contro l'ideologia
di classe, contro i traditori del comunismo (nella cui Gioventù si
arruola a soli tredici anni). Diceva a tutti d'esser nata nel 1910,
l'anno della Rivoluzione messicana.
L'immaginario
in cui agiscono i sentimenti dell'artista è sempre quello della
Cultura messicana, lo sfondo su cui si stagliano i fatti della sua
biografia; anche durante i suoi viaggi negli Stati Uniti e in Europa,
il Messico libero e quello indigeno, opposto a e ferito
dall'arrivismo e dall'arroganza dei Gringos (come lei
apostrofa gli americani), resta l'inamovibile alfa e omega. Frida, lei stessa, è una radice etnica. Lo è nei suoi
dipinti, nei suoi abiti, nei suoi turbamenti. Ma la sua educazione
acquisita è puramente marxista. Difendendo un murale di Rivera,
oscurato dalla Gioventù cattolica perché vi figurava la frase «Dio
non esiste», scrive al presidente del Messico:
(…) il Messico non è il paese ignorante e selvaggio dei Pancho Villa. (…) [In Messico] si dipingono allo stesso modo santi e vergini di Guadalupe e affreschi di soggetto rivoluzionario sulle scalinate monumentali del Palazzo Nazionale.
La
pietra miliare di queste lettere, e anche lo zoccolo duro, è
l'umanesimo agito nella forma delle donne, di tutte le donne. Ma si
badi a non scivolare nello stereotipo femminista, che Frida Kahlo non
è. Non lo è nelle dinamiche interpersonali, dunque non lo è nei
suoi dipinti. È la tua chicua, tua sorella, la vostra
amica, una malinche, una malfattrice, e sempre degli
altri. Riserva a se stessa parole non gentili per i ritardi con cui
risponde alle lettere e per i silenzi prolungati, altre volte invece
proprio per l'insistenza con cui chiede notizie, perché il sollievo
è sempre nel sapere dagli altri, nel sapere gli altri.
I numerosi, ostinati aborti cui dovette andare incontro a causa delle
deformazioni del suo bacino, la resero madre dei figli degli altri,
commare di tutte le amiche nel significato etimologico di
co-madre, e soprattutto madre di Diego, che mai sarebbe stato il
marito di nessuno. A questo proposito mi piace citare un excerptum
del suo Ritratto, in particolare la sequenza descrittiva della
sua forma esteriore:
con la sua testa asiatica sulla quale nascono dei capelli scuri, tanto sottili e delicati da sembrar fluttuare nell'aria, Diego è un bimbo grandotto, immenso, con un volto amabile, e lo sguardo un po' triste. I suoi occhi sporgenti, scuri, intelligentissimi e grandi, sono trattenuti a fatica nelle orbite – quasi vi escono attraverso palpebre gonfie e prominenti, come quelle di un rospo (…). tra questi occhi così distanti l'uno dall'altro, affiora l'invisibile saggezza orientale e molto raramente un sorriso ironico e tenero, la parte più bella della sua immagine, abbandona la sua bocca da Buddha, dalle labbra carnose. Vederlo nudo fa pensare a un bambino-rana (…). Del suo petto bisogna dire che se fosse sbarcato sull'isola in cui regnava Saffo, non sarebbe stato ucciso dalle sue guerriere. La sensibilità dei suoi seni meravigliosi lo avrebbe reso bene accetto, sebbene la sua virilità, specifica e bizzarra, lo renda desiderabile anche in territori dominati da imperatrici avide di amore maschile. (…) Dorme in posizione fetale e durante la veglia si muove con elegante lentezza, come se vivesse in un ambiente liquido. (…) La forma di Diego è quella di un mostro affettuoso che la nostra ava, Antica Occultatrice, la materia necessaria ed eterna, la madre degli uomini e di tutti gli dèi che gli uomini inventarono nel loro delirio originato dalla paura e dalla fame, LA DONNA – e tra tutte le donne IO – vorrebbe tenerlo sempre tra le braccia come un bimbo appena nato.
Tutto
questo, nonostante i tradimenti sleali di Rivera, congeniti alla sua
natura incolpevolmente bugiarda e amorale. L'immagine di lui che lei
sovente ritrae sul proprio volto al centro della fronte, come un
talismano, è quasi totemica: Diego è la summa dei suoi figli
non nati, un eterno feto che ricorda gli idoli messicani della
cultura uto-azteca.
Lei
comprendeva e giustificava ogni comportamento dell'uomo, anche a
scapito della sua dignità, salvandosi dal crimine del pregiudizio e
a scapito del suo dolore. Che, non a caso, si incunea nei suoi
Autoritratti, nelle linee-radici e spine che frastagliano le
sue composizioni: perfette, pazienti e gravide di colori e simboli.
Nel 1950 annota sul suo diario:
Sette operazioni alla colonna vertebrale, il dottor Farill mi ha salvata, mi ha ridato la gioia di vivere. Sono ancora seduta su una sedia a rotelle e non so se potrò riprendere presto a camminare. Devo portare un busto di gesso, una pena terribile, ma mi aiuta a reggere la spina dorsale. Non ho dolori, ma sono sempre stanchissima e, ma questo è naturale, spesso sono disperata, in un modo indescrivibile. E tuttavia ho ancora voglia di vivere.
Un'ultima
parola sullo stile delle Lettere. Impera, presto detto, una
vocazione descrittiva paratattica che tende all'accumulazione e alla
ripetizione. La sua lingua, sul piano del lessico, è estremamente
produttiva e immaginifica. Pur prevalendo la lingua d'uso, l'occhio
del lettore deve familiarizzare di continuo con i neologismi e i
molti prestiti dall'inglese e dal tedesco che si diverte a deformare.
Un esempio, da una lettera del 1946 ad Alejandro Arias, suo primo
fidanzato:
Alex darling, non mi permettono di scrivere a lungo, ti mando questa mia solo per dirti che ho passato the big momentaccio operatorio. Tre weeks fa hanno proceduto al taglia-taglia delle ossa e questo medicamen è talmente meraviglioso e il mio body così pieno di vitalità che oggi mi hanno già messo sui miei poveri feet per due minutini, e nemmeno io ci bilivo [ispanizzazione dell'inglese to believe].

Negli
anni, la sua scrittura epistolare si affina, lei stessa se ne accorge
e più volte fa ironia su questi suoi progressi.
L'incontro
con l'opera omnia di Frida Kahlo è un incidente. Per ciò è
cosa buona e giusta che avvenga, avendo esercitato se stessi e la
propria pancia al coraggio della comprensione. Frida insegna che una
colonna spezzata, molte volte e in più punti, non smette per questo
di essere una colonna. Allo stesso modo va accettata la vita, severa
e appassionata.
Andrea Gatto
Bibliografia e
filmografia:
- Il diario di Frida Kahlo. Un autoritratto intimo, introduzione di Carlos Fuentes, a cura di Sarah M. Lowe, Leonardo, Milano 1995
- Hayden Herrera, Frida, La Tartaruga, Roma 2001; Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010
- Pino Cacucci, ¡Viva la vida!, Feltrinelli, Milano 2010
- Frida, di Julie Taymor. USA, Canada, Messico, 2002, 118'
- Frida, naturaleza viva, di Paul Leduc. Messico, 1986, 108'
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