Calcio e acciaio
Gordiano
Lupi
Acar
edizioni, 2014
pp
193
12,50
“Il problema con la vita è
che, anche quando non cambia mai, cambia continuamente.”
Un
romanzo dove accade ben poco, Calcio e
acciaio di Gordiano Lupi, incentrato su un proustiano ricordare, una madeleine che rimanda a piene mani al
precedente libro dell’autore, il bellissimo Alla
ricerca della Piombino perduta. Anche qui la nostalgia è la cifra
principale, permea di sé tutte le pagine in modo straziante.
“Giovanni è tornato a Piombino per ammalarsi di ricordi. Quando la realtà non è come la vogliamo si finisce per rifugiarsi nel passato.” (pag 77)
L’autore
dissemina se stesso, spalmandosi sui vari personaggi, Giovanni in primis, ma
anche Marco, Gino, Paolo, Paola, i quali
hanno tutti il vizio di ricordare, di non adattarsi alla realtà quotidiana ma
cercare qualcos’altro, qualcosa che doveva essere e non è stato, qualcosa che
non potrà essere mai più.
“Giovanni si scopre a pensare che forse non gli manca tanto il Cinema Sempione, quanto il sapore di giorni che non possono tornare, quando tutto era ancora incertezza e scoperta del futuro, quando le immagini sul grande schermo erano i suoi sogni occhi aperti. Proprio così, come un gelato assaporato ancora oggi che non conserva il gusto del passato, pure se lo compri nella stessa gelateria della tua infanzia. Sa di cose che non possono tornare. Sa di rimpianto.” (pag 94)
Tutti
i personaggi hanno gusti, manie, interessi riconducibili all’autore, dal
calcio, al cinema, alle letture, a Cuba, e in loro è fortissimo lo scarto fra
ideale e reale, la freccia puntata verso l’alto – dove il reale è sempre e
comunque perdente - che è la caratteristica più tipica del Romanticismo. È
gente, questa, che “il filo dell’orizzonte
se lo porta negli occhi”, perché ciò che possiede non gli basta mai, non si
accontenta del presente ma languisce nel rimpianto, in un bisogno sempre inappagato,
sempre spostato in avanti o indietro.
Giovanni,
il protagonista, è un ex calciatore di fama nazionale che ora, a cinquant’anni,
allena la squadra del Piombino, città dove è nato e cresciuto e dove sono
conservati tutti i suoi ricordi. Giovanni è un uomo aspro perché fragile, un
uomo che conosce la solitudine terribile di chi si sente solo in mezzo agli
altri, solo mentre mangia una pizza con gli amici, solo mentre fa sesso con una
compagna della quale non è innamorato. Forse, paradossalmente, è meno solo
quando passeggia senza nessuno sulle scogliere da cui si vede l’isola d’Elba,
mentre osserva i gabbiani in volo, ascolta il loro strido intriso di salmastro,
tocca le foglie carnose del fico degli Ottentotti pensando a una squadra da
allenare per un campionato di basso livello. Ci sono i ricordi a tenergli
compagnia, i volti e le voci del passato, ma la nostalgia è dolceamara, insopportabile.
Ricorda il tempo che fu, i sogni perduti, gli amori e, soprattutto, la giovinezza
che non tornerà mai. Di questo è acutamente e dolorosamente consapevole: le
occasioni sono sfumate, i treni sono passati e i giorni da vivere non sono più
così tanti.
“Mi trovo spesso a pensare che siamo i protagonisti di una storia che sta finendo, confinati in un angolo d’ombra, viviamo del nostro passato, piangiamo sulla nostra vita.” (pag 108)
Soprattutto,
ciò che è stato non sarà più e il dolore, misto a una solitudine lancinante, è insostenibile.
Da
bambino Giovanni viveva in una casa che era al di sotto delle possibilità della
famiglia, una casa dove lui non aveva nemmeno una camera sua, ma che era intessuta
di voci, di sapori e ricordi. Là, a pochi passi, abitava il nonno, responsabile
del mondo fantastico di Giovanni/Gordiano, della sua capacità affabulatoria, della
cattiva abitudine di sognare; là suo padre cenava con le spalle al mostro dell’acciaieria,
fumoso, grigio, maleodorante, pronto a insanguinare il cielo con un falso e
ferroso tramonto. L’orizzonte del cortile era limitato ma conosciuto e amato. Era
il suo orizzonte.
“Al limitare dell’orizzonte l’industria, la colata continua, l’altoforno che bruciava i residui ferrosi e regalava un tramonto innaturale che colorava il cielo di rosso ad ogni ora del giorno.” (pag 56)
Ora
Giovanni sta nella villa di Salivoli, quella dei sogni di ragazzo, ma tutto
ha perso sapore, le giornate trascorse senza l’impegno del calcio sono vuote,
aride, deprimenti. Il tempo dà valore alle cose, alle memorie, anche a quello
che bello non era; tutto ciò che è stato, solo perché non c’è più, anche gli
affanni, anche il degrado, anche la provincia sonnolenta e immota, anche la
noia, diventano desiderabili, diventano la madeleine
inzuppata nel tè in grado di sprigionare un’esplosione di reminiscenze.
Ci
sono momenti in cui i sogni del passato si scontrano con la realtà per poi
tornare nuovamente sogni nella prospettiva del ricordo, come a pagina 55, dove
lo schema è SOGNO>REALTA’>SOGNO.
“La maestra spiegava le guerre puniche , mentre fuori si cominciava a intuire la primavera tra il salmastro delle tamerici e i primi fiori delle agavi spinose. Giovanni lasciava correre la fantasia. La storia con tutte quelle date e battaglie da imparare a memoria non gli interessava proprio. Era un po’ come la matematica, in fondo. Se ne poteva fare a meno. Fantasticare no, invece. seguire i sogni che volavano dietro i raggi di sole, immaginare il volo di un gabbiano nei colori dell’arcobaleno, veder partire navi pirata dalle scogliere a picco sul mare. Quelle erano le cose davvero importanti. La maestra spiegava e lui vestiva i panni di un soldato romano, gladio in pugno, a combattere in un’immensa pianura africana. Era il centurione Giovanni e partecipava alla distruzione di Cartagine. Agli ordini di Publio Cornelio Scipione detto l’Africano. Fuori dalla scuola come sempre incontrava la realtà. C’era soltanto il nonno ad attenderlo. Nessun generale cartaginese. Nessun console romano. Niente di niente. Soltanto il nonno.”
Il
sogno non ha età, non ci molla mai, non ci lascia in pace. Non è vero che invecchiando
si smette di desiderare, di ambire, di fantasticare. È questo a fregarci, a far
sì che Giovanni, impotente a resuscitare il passato, malinconico, infelice,
veda se stesso nella giovane promessa marocchina Tarik, identificandosi nelle
sue speranze ma anche nella sua nostalgia verso il proprio paese abbandonato.
“Giovanni non ha dimenticato. Lo sa che non deve rinunciare ai sogni, in ogni momento della vita ce ne sono, pure quando tutto sembra finito.” (pag 63)
La
fantasia di Giovanni/Gordiano è accesa, inarrestabile, nutrita da racconti e
letture eterogenee, che spaziano da Carolina Invernizio alle fiabe dei fratelli
Grimm, dai fumetti a De Amicis. Calcio e
acciaio è bagnato dagli spruzzi delle onde, percorso dalle grida degli
uccelli marini, intriso di salsedine e rimpianto, procede avanti e indietro fra
passato e presente, passa dalla terza alla prima persona facendoci piombare
dentro i personaggi per poi riuscirne, come un cormorano che si tuffa in mare e
dopo riemerge. Le ripetizioni seguono il fluire di una narrazione che avanza spossata, estenuata, eppur scorrevole. I termini sono quotidiani, semplici, riacquistano
la valenza primigenia che dovrebbero avere, spogliandosi dell’abuso e dell’iperbole,
come fossero anche loro tornati indietro nel tempo, a quando i campi di calcio erano
sterrati, al cinema si mangiavano seme e noccioline invece di pop corn, e lo
sballo consisteva nel masticare lo stesso chewing gum dall’alba al tramonto.
“Troppi sogni seppelliti tra le buche del cortile. Troppe cose impossibili da dimenticare.” (pag 579)
Sì,
non si può dimenticare Piombino, non si può dimenticare il passato. E allora,
alla fine, c’è la quadratura del cerchio, o, meglio, la sua chiusura, il loop,
l’uroboro. Piombino non si dimentica e diventa “il punto di arrivo e non la fine del sogno”. Si torna indietro, si
riscoprono le radici, si riannoda il filo della memoria valorizzando l’essenziale,
smitizzandolo e riappropriandosene nel quotidiano, guardandoci intorno e recuperando
quello che c’è di buono, ritrovando il futuro. Finché c’è vita, finché si
respira, si va avanti.
“Non potrei dimenticare il profumo di questa terra che conserva tutti i miei ricordi. La scogliera nei giorni d’estate, la maglietta sudata dopo una partita di calcio su un campetto improvvisato, la merenda pane burro e marmellata davanti a un fumetto, la canna di bambù divelta per strada in via Amendola dove adesso costruiscono case, il palazzo della sirena e le leggende inventate dal nonno, la spiaggia del Canaletto con il fossato a cielo aperto, maleodorante e romantico sogno del passato. No, non potrei dimenticare Piombino.” (pag 160)
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