di Noémi Szécsi
Baldini e Castoldi, 2014
Tra i generi più abusati nella storia del romanzo occidentale, un posto sul podio spetta senza dubbio al filone gotico. Fiorito a partire dalla fine del Settecento e presentando fin da principio una varietà di sfumature e interpretazioni, alle sue origini e per tutto l’Ottocento il gotico ha ispirato gli autori più diversi che si sono cimentati con un genere presto divenuto moda ma che ha saputo dare esiti estremamente interessanti con romanzi oggi generalmente considerati classici: basta pensare –solo per restare nel panorama inglese- a Carmilla, Frankenstein, i romanzi truculenti di Ann Radcliffe, fino a Dracula l’apice del genere, ma non mancano singoli elementi del gotico rintracciabili in romanzi di genere diverso, esempio di una moda che ha attraversato il secolo contaminando il novel con i suoi richiami al soprannaturale, all’inconscio, all’incubo.
Nonostante –o forse proprio a causa di- la popolarità del genere a cui si sono dedicati anche autori il cui valore era già solidamente riconosciuto dai contemporanei, il gotico è stato a lungo ignorato dalla critica letteraria e giudicato semplice genere d’evasione; è infine a partire dalla seconda metà del Novecento che si è iniziato a rileggere con nuovo sguardo critico la produzione gotica, interpretata ora come specchio delle paure e dei tentativi di esorcizzarle di quella stessa classe sociale protagonista della grande stagione del romanzo borghese ottocentesco.
Inutile fare qui esempi degli innumerevoli romanzi che negli ultimi anni hanno visto protagonisti non morti, spesso trasformati da demoni della notte in affascinanti adolescenti famelici, ma nonostante tutto sempre in qualche misura specchio delle paure e dei desideri più reconditi dell’animo umano esorcizzati nella figura del vampiro forte, bellissimo e implacabile, ma condannato per l’eternità ad un desiderio mai del tutto soddisfatto. Una creatura estremamente affascinante, che tuttavia oggi si discosta sempre più dalla sua tradizionale rappresentazione per diventare invece protagonista di seriali romanzetti rosa del nuovo genere denominato young adult alla cui presenza perfino le guance esangui di Louis e Lestat arrossirebbero di vergogna: demoni che luccicano al sole, cerei adolescenti che studiano in accademie per vampiri, triangoli amorosi che si trascinano per l’eternità tra fratelli succhiasangue e doppelganger, il tutto solitamente condito con una buona dose di passione, morsi sul collo, pochi brividi o profonde riflessioni sul senso dell’esistenza.
Tutto questo per dirvi che il gotico e il vampirismo sono oggi così bistrattati ed abusati che la recente pubblicazione in italiano di La vampira snob, il romanzo d’esordio dell’ungherese Noémi Szécsi, ennesima interpretazione del tema questa volta in chiave pseudo ironica, dimostra ancora una volta come una voce interessante (che l’autrice indubbiamente possiede) e un punto di vista tendenzialmente originale non bastino a risollevare le sorti se non del genere almeno di un romanzo che nonostante tutti gli sforzi non riesce a decollare.
Protagonista e voce narrante nella Budapest contemporanea è l’umana Jerne Voltampère, erede di una grande dinastia di non morti ella stessa destinata a lasciare presto il mondo dei viventi per trasformarsi in vampiro e assecondare quindi i desideri della nonna tutrice che cerca di persuaderla verso la realizzazione della sua vera natura malvagia; la vecchia maliarda di duecento anni che passa le giornate tra amanti, affari e sangue ovviamente, tenta con ogni mezzo di educare quella nipote degenere e farla finalmente diventare una vampira degna della famiglia cui appartiene, soffocando le aspirazioni letterarie della ragazza e mostrandole il piacere che deriva dal potere e dalla crudeltà, sentimenti naturali per quelli della loro specie.
Ma Jerne ha studiato letteratura in Inghilterra e sogna di diventare autrice di favole per bambini, ha una repulsione per il sangue e si muove nel mondo con cinismo e spirito pungente, pur consapevole del destino che la attende e della propria natura. È una giovane donna apatica e insoddisfatta, succube dell’unica figura materna che ha conosciuto, a cui la vita sembra scivolare addosso, la lingua graffiante come unica difesa. Nei suoi ultimi mesi da umana lavora in una piccola casa editrice di proprietà di una coppia disfunzionale quasi quanto il piccolo nucleo Voltampère, intreccia una disastrosa relazione con il suo capo, frequenta un amico d’infanzia convinto di diventare un giorno una rockstar, cerca di sottrarsi al controllo della nonna e intanto scrive, scrive, scrive: favole stranissime, che rispecchiano la personale visione disincantata della loro autrice, impossibili da pubblicare ma a cui si dedica con passione, l’unica cosa che davvero sembra interessarle e farla smuovere dall’apatia.
Non particolarmente bella o brillante e per nulla incline alla leggerezza, per Jerne l’unico reale interesse sembra essere la letteratura per l’infanzia su cui si lascia andare a lunghe digressioni più tra sé e sé che in una concreta discussione con le persone che le stanno accanto. Tra riferimenti agli studi di Propp, lavori e aneddoti su Hans Christian Andersen e un odio profondo per Winnie Pooh, la giovane donna si immagina autrice per l’infanzia con storie che finalmente superino gli stereotipi tradizionali e restituiscano ai bambini un immaginario mondo più cinico e crudele ma proprio per questo più vicino alla realtà.
Quando infine si unirà alla specie vampiresca dicendo addio alla vita da umana, in fondo poco muterà nell’esistenza di Jerne: la nonna sempre insoddisfatta di lei, le ambizioni represse, una sessualità confusa e incapace di emergere davvero, un semplice lavoro di copertura (questa volta come lavapiatti in un ristorante vegano) che la tenga lontana dalle manie letterarie. E soprattutto ancora una certa repulsione per il sangue, che la porta a nutrirsi il minimo indispensabile e senza provare quel piacere inebriante che travolge tutti quelli della sua specie.
Insomma, per Jerne i giorni da vampira assomigliano moltissimo a quelli da umana e scivolano via uno dopo l’altro con fugaci lampi di vita. Intorno a lei, prima e dopo la trasformazione, si muovono personaggi altrettanto eccentrici: il già citato amico Somi e l’affascinante nonna (con la quale il rapporto si fa sempre più teso), lo stravagante zio Oszkàr che attende con ansia di diventare il ricco erede della fortuna di famiglia, la boriosa poetessa O. con la quale Jerne intreccia una relazione omosessuale, colleghi di lavoro e vecchi amanti della nonna tornati solo per fare una brutta fine. Sullo sfondo, una Budapest decadente e alienante, dove i pipistrelli vengono presi a colpi di scopa e l’orgoglio nazionale è forte al punto da fare della città un richiamo irresistibile anche per un vampiro dalle infinite possibilità.
La Szécsi costruisce un romanzo ironico e potenzialmente originale in cui la voce fresca dell’autrice resta però come si è detto tra i pochi elementi interessanti: l’ironia sottile che pervade la storia, lo sguardo cinico di Jerne e i riferimenti culturali, da soli non bastano ad elevare una trama confusionaria e inconsistente, un tema sfruttato fino ai limiti della sopportazione e uno sfondo così poco delineato.
Gli spunti interessanti ci sono, ma di per sé non riescono reggere tutta la storia per quanto intriganti possano essere e nel marasma di temi e riflessioni finiscono per confondersi e perdere valore. Le considerazioni della protagonista sulla letteratura per l’infanzia, una delle tematiche maggiormente sviluppate nel romanzo, è lo spunto più notevole e da come miglior risultato gli stravaganti esperimenti compositivi di Jerne in cui la caustica fantasia della giovane si concretizza; storie che sarebbero sicuramente inadatte per il pubblico ideale a cui sono destinate ma che fanno sorridere il lettore del romanzo che si interroga sui risvolti morali delle fiabe per l’infanzia, la ripetitività del genere, i personaggi stereotipati (animali parlanti che generazione dopo generazione accompagnano il sonno dei bambini), la lingua semplificata con cui sono presentate.
Nella seconda parte del romanzo le ambizioni letterarie sono soffocate per volere della nonna e lo spazio viene lasciato alle esperienze di vita della neo vampira: esperienze che però si riducono alle solite considerazioni sul mondo e alla curiosità verso la sfera sessuale, dove l’oggetto del desiderio (ma anche in questo caso più che spinta dalla passione o dal sentimento Jerne sembra guidata da una curiosità quasi scientifica) è una donna, che nella sua vanesia esistenza è ancor più insopportabile della vampira nei suoi momenti peggiori. L’autrice dipinge con la consueta ironia il ritratto di una donna vanitosa e superficiale, una finta bohemien che recita versi e passa da una relazione all’altra, sicura di una sensualità e di un’intelligenza che in fondo non sembra nemmeno possedere. È lo zio Oszkàr allora in questa parte il personaggio secondario a tratti più affascinante, lo stravagante gay amico di famiglia che vive in attesa di ereditare una grossa somma di denaro e potersi finalmente godere la vita nel lusso più sfrenato, senza alcun pensiero o ambizione se non quello di spendere soldi. La vita in standby e un’anima incline alla malinconia lo rendono la persona più vicina al cuore di Jerne che nei suoi confronti avverte un’affinità unica e l’istinto a concedersi confidenze come con nessun altro. Al contrario della nonna che disprezza sempre più le scelte di vita di Jerne, lo strampalato “zio” sostiene la ragazza e alla fine le darà una possibilità di fuga dall’opprimente monotonia della sua esistenza da non morta.
Amici bizzarri, relazioni lesbo, angeli muti, pipistrelli che si arrampicano lungo i muri, divagazioni letterarie e relazioni che chiamare disfunzionali è un eufemismo, La vampira snob è un insieme disorganico di tematiche, riflessioni e riferimenti, in cui l’ironica voce dell’autrice sola si distingue nel caos di una trama che pagina dopo pagina ci aspettiamo spicchi il volo, in questo però rimanendo continuamente delusi, le aspettative verso la storia non soddisfatte.