Gente della Venezia
Otello
Chelli
Finegil
Editoriale spa 2014
Divisione
Il Tirreno
Gruppo
Editoriale l’Espresso
Narra
la leggenda che Otello Chelli, classe 1933, abbia imparato a leggere sedendo
accanto alle locandine dei giornali. Autodidatta genuino, scrive in una lingua
dove ogni parola è letteraria ed intrisa di pathos, ma gli sfuggono errori e
refusi che il Tirreno - da cui si può scaricare l’ebook “Gente della Venezia” - non ha provveduto a
correggere proprio perché la materia di questo cantore della labronicità più
intensa deve rimanere quella che è, grezza e lucente come un diamante appena
scavato, aulica e popolare insieme.
Anarchico
e libertario, comunista in senso quasi evangelico, Otello Chelli ha alle spalle
una lunga produzione di opere sia in prosa che in poesia. Il suo romanzo “La
stirpe dei Morgiano”, ormai introvabile, passa di mano solo fra gli amatori. Quello che
ci lascia oggi, all’età di ottantuno anni, è un vero e proprio testamento.
Prima di congedarsi vuol testimoniare un mondo che vive e palpita solo nei
cuori degli ultimi superstiti. Con la generosità e lo spirito solidale, a
momenti francescano, che lo anima, Chelli fa in modo che il suo lascito sia fruibile
da tutti e scaricabile gratuitamente dal quotidiano della sua città.
Già,
la città, quella stessa Livorno cantata da Caproni, patria di Mascagni,
Fattori, Modigliani. Ma non tutta, solo un quartiere, piccolo per la verità, che
si dilata e giganteggia, erge invisibili mura di fossati, di ponti, di barriere
che lo separano dal resto del centro toscano: la Venezia.
Il
quartiere si chiama così perché ricorda la città lagunare, fra ponti e canali,
scalandroni e navicelli; è architettonicamente molto bello, ha conosciuto il
suo massimo splendore nel settecento, Luchino Visconti vi ha girato “Le notti
bianche”. Per Chelli costituisce un macrocosmo, un intero universo, il teatro
all’aperto dei suoi sogni di bambino, il luogo dell’anima dove tutto è
possibile.
Il
testo è totalmente autobiografico ma di quell’autobiografismo capace di scardinare
i propri limiti e ridisegnare un mondo,
un territorio e un tempo popolati da una folla di uomini e donne che sembrano
usciti da un atto di Cavalleria Rusticana o da un quadro di Eugenio Cecconi,
anche se i fatti narrati sono posteriori e coprono l’arco che va dagli anni
trenta al dopoguerra. Gente che fu, gente del popolo, svelta di mano e di
coltello, pronta a lavare un’onta col sangue e a rubare per sfamare i figli, ma
capace anche di dividere tutto con gli amici. Gente di cuore che sa aiutare e compatire nel
senso letterale del termine.
Il
testo – non lo chiamiamo romanzo perché è piuttosto una sere di quadri, di “spezzoni”,
come li definisce l’autore – rievoca figure storiche, con tanto di nome,
cognome e soprannome. Si parte da Artemisia, madre del protagonista.
“Artemisia aveva chiamato i figli per dare loro il solito cantuccio di pane con qualcosa dentro per insaporirlo. Lei e Pepe Nero avrebbero cenato nella fiaschetteria di Edipo con una fogliata di acciughe sotto il pesto e un litro di vino rosso.”
È
un’Annina meno fine e meno caproniana, sanguigna, scarmigliata, dalla risata
squillante, pronta a battersi come una tigre in favore degli otto figli ma
anche dei figli delle vicine; capace addirittura
di incontrare il duce in persona per difendere il marito dagli
squadristi. Ma, soprattutto, generosa:
“Mamma poteva contare abbondantemente sui soldi guadagnati con i miei traffici, la fame ci era sconosciuta, ma nel mio nascondiglio, ne avevo uno anche nel labirinto della Fortezza Nuova, più ne mettevo, più il mucchio scemava. Era più forte di lei. Non poteva dare da mangiare ai propri figli mentre intorno altri bambini e ragazzi stavano a guardare con gli occhioni spalancati e una luce mista di desiderio, brama e supplica. Così divideva pranzo e cena con tutte le famiglie abitanti nel nostro pezzo di colonia e anche oltre, per me era padrona di farlo, mai avrei potuto richiamarla alla moderazione nella spesa quotidiana, perché condividevo pienamente quella solidarietà, del resto generalizzata, forse il dato più bello da registrare in quei lontani giorni di tragedia.”
Dopo
Artemisia, ecco la Ciucia, cui è dedicato anche il libro della pronipote Tiziana
Savi,“La Ciucia per tutti, Bruna per noi”, sempre con la partecipazione di Chelli. La Ciucia era un carattere borderline, una donna buona e compassionevole, che ogni giorno chiedeva – anzi,
diciamo pure pretendeva – l’elemosina per consegnarla ai soldati e a coloro che
soffrivano. Sparì senza che se ne sapesse più niente.
Fra
i personaggi riportati in vita da Chelli, spicca la giovanissima e bellissima
Doretta, innamorata di un amore infantile ma carnale, morta sotto i
bombardamenti.
“Ho vissuto una lunga, tumultuosa esistenza eppure, mentre mi avvio verso l’ultima tappa di questo mio viaggio sulla terra, la presenza dello spirito inquieto di Doretta è sempre più costante e qualche volta m’illudo che ella stia aspettando il momento in cui il mio corpo cederà alla morte, per allungare la sua mano, tirarmi su e correre insieme a me per le strade strette, battute dal libeccio, con i fossi pieni di navicelli e di vita, in una Venezia immortale che non sarà mai travolta dalla guerra che il 28 maggio 1943 distrusse le sue mura, ridusse alla rovina le sue case cancellando una splendida fiaba e disperse la sua gente in una diaspora senza ritorno”.
E
poi Otello Bacci, il musicista assurto agli onori della rivista con Dapporto e Totò;
e Silvano Ceccherini, ex capo di una banda di ladri, ex detenuto e poi
scrittore; e l’amico fraterno Sansone, compagno di tante avventure pericolose e
illegali, rinnegate da Chelli in favore dell’impegno politico. Come Doretta,
anche Sansone è morto e mai dimenticato.
“Mi inginocchiai sulla terra sotto la quale era stato sepolto e immersi un dito nella superficie marrone, fresca d’umidità, piena dell’odore buono dei campi e pensai ala sua anima: sapevo come in quel momento Sansone fosse finalmente libero.”
A
far da sfondo tridimensionale ai personaggi sono i luoghi ma, specialmente, i
momenti storici. In particolare tre: il fascismo, i tragici bombardamenti che rasero
al suolo Livorno durante il secondo conflitto, e l’occupazione americana che
trasformò Livorno in una novella Babilonia di traffici illeciti, malavita, borsa
nera, “segnorine” e soldati di colore, con la pineta di Tombolo convertita in terra di
nessuno, in covo di banditi e prostitute.
Al
di là della ricostruzione storica vivissima e partecipata, ciò che anima il
racconto è la nostalgia straziante di un mondo sparito, fatto, sì, di stenti, privazioni
e atti illeciti, ma anche di uguaglianza, amicizia, solidarietà, in pieno
spirito labronico. Quel periodo, quello spazio, quel quartiere, incarnavano gli
ideali che l’autore ha perseguito per tutta la vita. Otello Chelli è, infatti,
un comunista della prima ora, di quelli che intendono l’impegno politico come lotta,
ma anche amore, dedizione, onestà e purezza. Ideali destinati ad infrangersi e a
rimanere sempre irraggiungibili. Ideali che, al sapore acre della sconfitta, mescolano
quello del rimpianto per la giovinezza che non c’è più, per la vita che sta per
concludersi. Così, quest’uomo che ha superato gli ottanta anni, quest’uomo che,
dice, non ha mai avuto paura di morire, quest’uomo
duro ma col ciglio bagnato del poeta, si congeda da noi tramite la
riaffermazione lucida e disperata di ciò in cui ha sempre creduto.
“Voltai le spalle al tumulo e mi avviai verso la città laddove avrei affrontato altri settanta anni di vita tumultuosa, inquieta, mai facile, ma ricca di impegno e sacrifici, di dolore e felicità, di ideali poi infranti dagli uomini, in me, però, rimasti vivi come allora e sempre.”
E
ora, anche se nel testo esaminato non è compresa, ci piace accostare - timidamente
e con pudore - una poesia di Chelli che commemora
la figura di Artemisia ad una caproniana in memoria di Anna Picchi. Lo facciamo
così, senza nessuna pretesa, solo col piacere di evocare sentimenti simili.
IL
CARRO DI VETRO
Giorgio
Caproni
Il
sole della mattina,
in
me, che acuta spina.
Al
carro tutto di vetro
perché
anch’io andavo dietro?
Portavano
via Annina
(nel
sole) quella mattina.
Erano
quattro i cavalli
(neri)
senza sonagli.
Annina
con me a Palermo
di
notte era morta, e d’inverno.
Fuori
c’era il temporale.
Poi
cominciò ad albeggiare.
Dalla
caserma vicina
allora,
anche quella mattina,
perché
si mise a suonare
la
sveglia militare?
Era
la prima mattina
del
suo non potersi destare.
IN
MORTE DI MAMMA ARTEMISIA
Otello
Chelli
Corsi,
con il cuore che martellava dentro,
nella
notte interrotta
e
nei silenti, deserti corridoi dell’ospedale,
la
speranza lentamente svaniva nell’affanno
di
una certezza che mi strozzava in gola
l’urlo
del distacco imminente da te viva.
-
“Muore colei che mi stringeva al petto
con
amore,
quietava
i sonni miei,
e
mi donava il sangue dal suo seno.” -
La
porta aperta sul volto tuo disteso,
gli
occhi velati, la fronte senza rughe,
una
carezza e il tenue calore rimasto sulla pelle,
come
il tenero petto di un passerotto implume,
mi
resero il bambino disperato
che
piangeva svegliandosi nel buio.
Ora
non c’eri più con il tuo sguardo,
a
placare le molte mie inquietudini
e
gli affanni della ricerca antica
che
mai mi ha dato requie.
La
morte si era presa il tuo respiro,
senza
l’ultimo abbraccio dei tuoi figli
ed
io gemevo piano, con il viso
posato
sul tuo capo reclinato.
L’alba
mi vide accanto al freddo marmo,
chinato
sul tuo corpo a ricordare
i
momenti più belli della vita
e
i giorni sfortunati.
Poi
vennero i fratelli e le sorelle,
i
mille pianti, i fiori
e
il noce lucidato della bara,
il
lento camminare sull’Aurelia,
con
gli amici in attesa avanti casa
e
i mattoni a serrare il nostro cuore
nella
gelida morsa del dolore.
Ora,
trascorso il tempo, sono sceso quaggiù,
nell’oscuro
snodarsi delle tombe,
davanti
al tuo ritratto.
Brillano
fiochi lumi e il tuo sorriso,
tra
il biancheggiar dei fiori,
è
una povera immagine
della
squillante risata di mia madre,
quando,
giovane, bella e forte,
un
bimbo rincorreva lungo il viale
accanto
alla Crocetta di Saglietto.
Eppure,
Mamma, il tuo ricordo,
nonostante
lo scorrere di giorni mai tranquilli,
è
presente, ben vivo e mi accompagna
in
questa vita vissuta intensamente.
Il
tuo corpo è tornato nella terra
che
si frantuma attorno e che rinasce
dalle
ceneri sparse
di
un fuoco che ha vissuto sessant’anni.
Tu
rivivi con me, con i miei giorni,
soffri
e gioisci nei miei sentimenti,
ti
rifletti negli occhi dei miei figli,
scorri
con me le pagine diverse
degli
anni che trascorrono, cadendo,
uno
sull’altro, come foglie d’autunno.
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