Il primo tra tutti è la prospettiva del romanzo: già il titolo offre una chiara e definita chiave di lettura. Il nome proprio è, classicamente, il nome della donna per eccellenza, dell’oggetto della ricerca amorosa, di colei che a lungo ha fatto penare uomini valorosi, riducendoli (e il pensiero non può non andare all’Orlando ariostesco) alla follia; la notte, fin dalla mitologia e dall’iconografia classiche, è figura femminile. Nelle intenzioni originarie dell’autore il romanzo avrebbe dovuto recare come sottotitolo «La bella addormentata»: l’aggettivo è tipicamente femminile; “bella”, per antonomasia e per eccellenza è un aggettivo “donna”; ma la vera novità è il participio “addormentata”, il quale non solo qualifica la natura della vera protagonista del romanzo, ma è una richiesta implicita al lettore, come si vedrà più avanti.
Si diceva della particolare prospettiva del romanzo: una prospettiva quasi totalmente femminile, dal momento che la protagonista è Angelica, paradossalmente colei che non dice una parola, che non compie azioni, la non agente e la non parlante. Eppure è lei a tenere insieme le fila del discorso e dell’azione: un perno immobile e silente, intorno cui, però, si parla e si agisce. La sua connotazione ecfrastica, quasi statuaria, lascia aperte al lettore domande, che, forse proprio nelle intenzioni dell’autore, devono rimanere ipotesi e possibilità.
[…]Creatura invulnerabile, lontana, chiusa. Sapresti dirmi chi è? […] Chi sei?... Niente, niente! Se trovassi almeno il segno di una passione qualsiasi. Odio, avversione, ripugnanza. Ma nulla, nulla! È terribile, Arno! Hai creduto mai alla sfinge? Ora so che la sfinge non è morta! Guardala. Il sonno. Un sonno chiuso, più tremendo, più lontano di quello che somiglia alla morte. E laggiù, nel fondo del suo sonno, il lume di una felicità… Sì, sì, la calma, la tranquillità, l’estasi di una felicità che non mi appartiene, che mi resterà ignota, enigmatica… sempre.
Mi sono portata dietro una statua, una statua morbida e calda. Mi guarda e non mi vede, mi ascolta e non risponde. È viva! viva! viva in una sua vita che io non… Felice… In quel sonno…
È addormentata per sortilegio? È un inganno? È nel momento tra la vita e la morte? Per chi scrive l’ipotesi più affascinante è proprio la terza: Angelica è nel momento del trapasso tra la vita e la morte, in una sorta di limbo, taciuto e detto, al contempo, da Savinio. La prospettiva, allora, è quella della morte (non a caso, un’altra figura mitologicamente femminile), della sospensione del dolore, dell’atarassia, di un sonno luttuoso e funesto.
La protagonista, quindi, non sente, è priva di sensi, è priva di volontà: si diceva prima che la prospettiva è quasi totalmente femminile. Infatti, paradossalmente, l’unica azione che Angelica è in grado di compiere, quella del tradimento consumato con il dio Amore, è descritta dalla prospettiva maschile del tradito e dell’amante.
Una prospettiva, dunque, dominante in absentia, tutta giocata sul silenzio, sulla non azione e sul femminile.
Questa sorta di ipnosi rimanda alla seconda novità del testo saviniano, ovvero il rapporto dell’opera con il lettore: l’adozione di una prospettiva che, di fatto, manca, permette all’autore di trascinare chi legge in una sorta di “ipnolettura”. Angelica detta le condizioni: e il lettore deve seguirla, perché Savinio è il primo ad andarle dietro. La multimedialità del romanzo, quindi, insieme all’uso di tecniche diverse tra loro non risponde tanto alla strutturazione del testo, quanto a guidare il lettore verso la medesima condizione della protagonista.
Una terza peculiarità “nuova” dell’opera è il rapporto tra il testo saviniano e il mito di Amore e Psiche.
Nella favola saviniana avviene uno svelamento, una volontà di conoscere: ma mentre nel mito è Psiche a voler conoscere (la donna, quindi è agente e pensante), in Savinio avviene qualcosa di diverso, di particolare. La donna rimane non agente, non parlante, e (forse) non pensante, beatamente sorridente nella sua condizione di “statua con il sorriso”: colui che vuole sapere, il marito, il Barone Felix von Rothspeer, delega la sua sete di conoscenza al fidato segretario (non a caso, un uomo appassionato di letteratura), Brephus, il quale si fa occhi e orecchie del suo padrone, diventando parte inconsapevole di un mènage allargato e pagando il suo (non) voler conoscere con la (possibile) morte. Non è più l’archetipo del mito a determinare il tipo di romanzo: il percorso è inverso. Dal tipo si va verso l’archetipo: l’Angelica saviniana determina il mito di Amore e Psiche, che si presta a un’attualizzazione, perché in nuce possiede concetti attualizzanti, al punto che il dio Amore può essere ferito da un colpo di pistola.
Un buio che si lasciava palpare: dolce al tatto morbido, sontuoso come i capelli di… Le mani si entusiasmavano al contatto della invisibile chioma che un poco spessiva l’aria e invitava a un dolcissimo soffocamento, alla morte di tutte più graziosa, a un naufragio irresistibile dentro l’oscuro e amoroso cuore della notte, e a un vasto palpitare d’ali.
Non era sazio, non cedè all’ineffabile abbandono: frugò ancora con le mani avide: tuffò la faccia, il petto nel buio fatto corpo: lo ferì.
Una bocca di cielo brillò tra le folte labbra di nuvole: il cielo nella camera: la camera nuziale. […]
Si rialzò a stento. Dondolò a mezz’aria con un fruscio intermittente. Cadde e si rialzò. Volò più alto, verso la finestra. Stramazzò sul davanzale. Si rialzò. Volò a scatti. Piombò bocconi sui gradini della villa.
Questa continua oscillazione tra mito e reale, tra sonno e veglia, tra vita e morte è racchiuso dall’elemento che, pur ricorrendo sempre, rimane sullo sfondo, quasi come una continua cantilena che dà il ritmo a tutto il testo: l’acqua. Sia essa mare, sia essa pioggia, sia essa tempesta, l’acqua è motivo ricorrente in tutto il romanzo: come se Savinio avesse voluto metaforizzare le sue parole. L’acqua è indefinibile, è capricciosa, è sfuggevole, è liquida, si insinua, e così come può portare vita e refrigerio, allo stesso modo può essere catastrofica: così come l’Angelica. Una superficie che nasconde una profondità che si può cogliere solo ponendosi in una determinata prospettiva, nascosta, ma presente. Che la chiave di lettura dell’opera sia anche un consiglio che Savinio vuole dare? Che la condizione di Angelica sia quella giusta per affrontare la vita? Leggendo nel nome proprio del barone von Rothspeer, Felix, un segno crudele, o meglio, una beffa crudele del destino verso un uomo che crede che la felicità si possa acquistare con i soldi, che una bella addormentata possa bastare, pur di avere l’oggetto di un desiderio che cavalieri ed eroi hanno rincorso per secoli nelle opere letterarie? Vedendo nella figura del borghese, «colui che non milita […] in nessun senso: non milita nel pensiero, non milita nell’azione, non milita nel lavoro. L’immilite uomo. Colui che ha rinunciato all’attività eroica della vita» (si veda la voce «borghese» in Alberto Savinio, Nuova Enciclopedia, Milano, Adelphi, 1977, p. 76), il tentativo sarcastico e non riuscito di riscattare una condizione non riscattabile?
Ciascun lettore può dare la sua risposta: leggendo Angelica in maniera ironica o seria, non importa.
Ricordandosi però che lo stesso Savinio si definisce più volte uno scrittore ipocrita (sintagma ripreso da Walter Pedullà nel titolo del suo capitale saggio che apre la strada alla critica saviniana): ipocrita nel senso etimologico (Savinio è un autore ossessivamente affezionato alle etimologie), ovvero “colui che guarda da sotto”, da una prospettiva altra e non comune.
Edizione di riferimento: Alberto Savinio, Angelica o la Notte di Maggio, in ID., Hermaphrodito e altri romanzi, a cura di Alessandro Tinterri, Milano, Adelphi, 1995, pp. 353-437.
Ilaria Batassa