CriticaLibera - «Niente racconta di più di una persona del modo in cui muore»: arrivederci Gabo



Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
«follìa».
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia.
«malinconìa».
Un musico, allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
«nostalgìa».
Son dunque… che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.
(Aldo Palazzeschi) 

É come se la letteratura si fosse fermata, per un attimo: come se avesse trattenuto il respiro, come se avesse chiuso gli occhi. 
E poi, madre, abbia cominciato a piangere la perdita di uno dei figli prediletti. 
Mentre a Roma tirava un forte vento, e, in un convegno dedicato a Morselli, si parlava di ucronie, di cronotopi manipolati, di un presente eternamente presente, del tempo del trapasso dalla vita alla morte, qualcuno lasciava il contingente per un altrove, che secoli di letteratura e di arte hanno provato a rappresentare e a definire. 
Gabriel García Márquez, Gabo, pensava alla morte, soprattutto in aereo, e il suo unico cruccio era quello di non poterla raccontare. Tanti scrittori hanno provato a raccontare cosa succede al “punto”, in quell’istante del trapasso. Ma pochi sono riusciti a dilatare a tal punto il tempo narrativo da far nascere capolavori. Gabo ci è riuscito. Il suo capolavoro Cent’anni di solitudine, già nel titolo dichiara quali sono le vere cose che muovono l’uomo: il tempo e il suo essere solo in un mare di gente, in un labirinto di storie, che si sfiorano, anche impercettibilmente, ma che danno comunque vita a qualcosa. 
Le parole di Márquez non danno preavvisi, colpiscono e basta, zampillano dalla concretezza della terra: ne deriva una scrittura sospesa tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, tra il reale e l’irreale, tra il presente, il passato e il futuro, tra il sogno e i ricordi, tra il mito e la storia, tra l’ancestrale e il contingente. 
Ogni sua opera si gioca su un livello di vissuto vero, di itinerario umano e di scrittura, senza, tuttavia, rinunciare all’incursione in un mondo mitico da un lato («il mondo era così recente che le cose erano prive di nome»), e nei riferimenti storici dall’altro. 

Il tempo di Gabo è un «tempo curvo» (secondo la definizione di Cesare Segre) che non pretende l’infinito, perché consapevole dell’esistenza del limite supremo, nel quale il passato e il futuro riescono a pacificarsi con il presente: Márquez, ora, è in pace con i suoi tempi e i suoi spazi, ha finalmente posto fine al suo movimento rotatorio. L’eternità lo attende: l’ha descritta con le parole, ora la vive. E potrà davvero confrontarla con le sue istanze e le sue certezze. 

Nella vecchiaia e nella malattia, Gabo non ha mai smesso di sognare, di rievocare il mito, pur vivendo nel presente, nel confronto serrato e costante con il contingente: non si è mai sottratto alla sofferenza («Non avrei barattato il piacere della mia sofferenza con nessun’altra cosa al mondo»), ha accettato la solitudine come condizione mentale ed esistenziale dell’uomo («Il segreto per invecchiare bene è aver fatto un patto di onestà con la solitudine»), ha saputo convivere con la poliedricità dell’esistenza («Tutti gli esseri umani hanno tre vite: una pubblica, una privata, una segreta»), con la presenza della morte insita nella forza della vitalità («Niente racconta di più di una persona del modo in cui muore»), con un Dio in cui non credeva, ma che temeva («O Dio che non esisti, io ti prego», gli avrebbe potuto suggerire Dino Buzzati), con la consapevolezza che le vere forze che muovono il mondo non sono i desideri appagati, ma quelli non raggiunti, che creano continuamente lo stimolo per fare di più («Mi sono reso conto che la forza invincibile che muove il mondo non è tanto l’amore felice, ma l’amore non corrisposto»). 

Márquez ha descritto l’attesa, la ripetizione, la ricerca di logica laddove la logica manca. Ha scritto tanto dell’infanzia quanto dell’età adulta, della storia quanto del fantastico, di un mistero esistenziale a cui ha dato il nome di “solitudine”. E ore che se ne è andato lascia l’amaro in bocca: ogni lettore vorrebbe sempre di più dai suoi autori, pretende da essi l’immortalità, la capacità di sfidare la “signora con la falce”, uscendone vincitori. Ci si dimentica che si è di fronte a uomini e donne che hanno un limite, naturale e umano, oltre il quale non possono, e, forse, non devono andare. Sono creature che diventano mitologiche nel momento in cui lasciano che a sopravvivere siano le loro opere. Se il mito è quel qualcosa di perfetto, che si arricchisce ogni volta che viene ripreso, ricontestualizzato, riscritto, allo stesso modo un autore entra nel mito ogni volta che viene letto, compreso, vissuto. 

Ogni lettore riscrive un’opera, con la fantasia, con l’immaginazione, con il proprio vissuto, i propri ricordi, le proprie speranze, le proprie profezie, i proprio desideri: ogni autore scrive per fare in modo che questo miracolo avvenga a ogni lettura. 
Ogni autore prevede dei personaggi che non ha scritto, che non conosce, che non ha programmato, che non ha delineato: ogni autore si espone tanto alla storia quanto al mito. 
E Márquez lo aveva capito benissimo, tanto da affermare: 

Forse l’errore della mia vita consiste nell’aver abbandonato il villaggio assolato e polveroso dove i miei genitori assicurano che sono nato e dove sogno di trovarmi - innocente, sconosciuto e felice - quasi ogni notte. Se così fosse stato, probabilmente non sarei quello che sono, ma potrei essere anche di gran lunga migliore: un semplice personaggio di romanzi che non avrei mai scritto. («El Paìs», 13 aprile 1983)

Eppure se ne è andato da quel villaggio, eppure ha continuato a sognare, eppure ha scritto, eppure ha creato personaggi. Eppure permette a chi rimane, a chi lo ricorda, a chi lo legge e lo leggerà, come se fosse ancora vivo, di sentirsi personaggio non scritto di un romanzo scritto. 
Che sia questa la vera immortalità?