Il nero e l’argento
di Paolo Giordano
Einaudi, Torino 2014
Cartaceo € 15
pp. 122
Cosa accade quando la più grande testimone di un amore
scompare? Nel nuovo “Il nero e l’argento”, Paolo Giordano affronta l’amore e la
morte dalla prospettiva peculiare di quello che resta: da un lato, il ricordo
di chi c’è stato (con i doverosi flashback), dall’altro la presenza paradossale
di un’assenza schiacciante. E i personaggi si chiedono, pagina dopo pagina,
cosa può succedere anche alla loro vita, ora che la signora A., chiamata
affettuosamente Babette, è stata stroncata dalla malattia:
Nella nostra vita, la vita mia e di Nora e di Emanuele che a quell’epoca sembrava rivoluzionarsi ogni giorno e oscillava pericolosamente al vento come una pianta giovane, lei era un elemento fisso, un riparo, un albero antico dal tronco così largo da non riuscire a circondarlo con tre paia di braccia. (p. 8)
La signora A. non è una presenza ingombrante: è stata una
governante, una babysitter, una amica pur mantenendo la distanza, talvolta una
nonna, protettiva e sempre coerente al suo riserbo congenito. Un nume tutelare,
potremmo dire, della famiglia del protagonista: è arrivata quando Nora, la
moglie, era costretta a letto nei lunghi mesi della gravidanza, ed è rimasta
finché il cancro non ha iniziato a mangiarle la dignità. L’abbraccio della sua
saggezza, a tratti asciutta e a tratti capace di grandi slanci, era un punto
fermo nella vita un po’ rabdomantica della coppia: “senza il suo sguardo, ci
sentivamo in pericolo”. (p. 17) Sì, perché Nora e l’io-narrante sono incappati
nel loro amore quasi senza accorgersene, e anche la convivenza vive molto del
qui e adesso. Lo si evince, ad esempio, da questo bellissimo passo, che
suggerisce l’atteggiamento della coppia:
Abbiamo una strana mania iconoclasta, Nora e io: non conserviamo alcunché, non ci scambiamo lettere né biglietti (a eccezione di qualche lista della spesa), durante i viaggi non acquistiamo souvenir perché per lo più sono di cattivo gusto e oramai si trovano uguali in ogni parte del mondo e, da quando i ladri hanno visitato l’appartamento, non custodiamo oro né gioielli, semplicemente non ne possediamo. L’esistenza del nostro tempo insieme è affidata alla buona memoria, la nostra e quella in silicio di una scheda madre. No, neppure noi due, Nora, ci ricordiamo del futuro. Non abbiamo un album del matrimonio, ti pare possibile? Eppure un giorno ci troveremo abbastanza lontano da quel momento da volerlo rivivere almeno nelle immagini. (p. 63)
Paolo Giordano a #SalTo14 Foto di GMGhioni |
Profondamente cambiati e colpiti dalla malattia della
signora A., Nora e il marito non si tirano indietro, e anzi seguono i passi
sempre più inesorabili verso la morte della signora A. E qui Paolo Giordano dà
il meglio: scava nei dettagli che trasformano la misconoscenza di un
personaggio in qualcosa di più, ci mostra il ritratto della signora A.
attraverso le parole e soprattutto i gesti più minuti. Nel passare delle
pagine, lo scrittore mette in pratica questa sua riflessione:
“Può accadere, dopo anni di convivenza, di scorgere simboli ovunque ci si volti, tracce della persona con la quale abbiamo diviso così a lungo gli spazi”. (p. 87)
Pare incredibile: nelle centodiciotto pagine di narrazione,
quei simboli si materializzano anche davanti ai nostri occhi, a volte
cullandoci (come nella bellissima scena del primo incontro tra Nora e il
marito), spesso sferzandoci (le ultime pagine sono a prova di lacrime anche per
i più cinici). E in questo sta la forza di questo romanzo: nel potere di
sbaragliare le difese dei lettori, e di scavare entro realtà a volte scomode,
che preferiamo affrontare solo quando ci è inevitabile. Il tutto, con la
piacevolezza di una grande storia d’amore; anzi, una storia di più amori.
GMGhioni