di Mario Rigoni Stern
Einaudi, 1965
pp. 175
È l’anno, il 2014, che segna il secolo dall’inizio della Grande Guerra. Ci sarebbero tanti romanzi che ricordano come la dissoluzione di un mondo, specie la Mitteleuropa , stava avanzando inesorabile, a prescindere dal conflitto. A Vienna, 100 anni fa, passeggiavano Joseph Roth e Robert Musil tanto per citare solo due grandi autori simbolo della finis Austriae.
Poi c’è l’attualità e la pericolosa frantumazione di uno Stato, l’Ucraina, che ancora deve decidere se affidarsi all’abbraccio dell’occidente o a quello delle steppe orientali. In quelle lande sterminate avvenne un fatto, nella guerra mondiale successiva alla prima: la ritirata del corpo di armata italiano inviato a dare manforte ai tedeschi nell’operazione che doveva portare all’abbattimento dell’Unione Sovietica. Così mi sono ritrovato per caso tra le mani il libro di Mario Rigoni Stern, lasciato finora a guardia di chissà quale avamposto della biblioteca. Un salto di pochi decenni, rispetto al 1914, all’insegna comunque della tragedia.
Mario Rigoni Stern era sergente maggiore di un plotone di alpini che sul fiume Don si trovò stretto in una sacca determinata dalla forza d’urto dell’Armata Rossa decisa a rompere l’assedio su questa parte del fronte. La sua esperienza di marcia e di morte ce l’ha consegnata non tanto come testimonianza bellica ma come testimonianza della condizione umana. Per Mario Rigoni Stern, come per altri, scrivere è stato un anticorpo, è la coscienza che lo ha chiamato, in un altro momento peraltro difficile, prigioniero dei nazisti in un campo prussiano, per impedire che venisse rimossa una vicenda che condizionò centinaia di migliaia di italiani e le loro famiglie.
«Ero diventato un sasso, un minerale», scrive Rigoni. Ma non tanto per le condizioni atmosferiche come noto proibitive e condizionate dal gelido inverno russo che ha fiaccato qualsiasi invasore, quanto per la rigidità forzata da una deperimento fisico e psicologico intollerabile. La marcia dei soldati italiani è stata solo geograficamente in linea retta, quasi su un asse cartesiano, perché la caratteristica morfologica prevalente del territorio da percorrere era la piatta steppa scalfita da qualche modestissimo dislivello. In realtà quella marcia è stata una discesa: la solita schifosa discesa agli inferi generata da una situazione senza limite di abbrutimento.
Tra le righe, tutte di forte carica emotiva ed evocativa, emerge quella che era la nazione scaraventata nel più grande conflitto armato della storia. L’Italia era veramente l’Italietta di giolittiana memoria, nonostante la magniloquenza del fascismo. I sogni dei nostri soldati nelle trincee erano semplici come la vita contadina che contraddistingueva ogni regione. Dove stavano le industrie? Non certo nel Cadore, nell’altopiano di Asiago, nelle valli cuneesi. Qui si conduceva un’esistenza tra pascoli e animali, pesca nei ruscelli e corse negli acciottolati dei paesi per vedere una ragazza affacciarsi dalla finestra di casa. Questi ragazzi sognavano una sbronza di Barolo o di grappa e una pastasciutta fumante. Quello che le tavole delle loro cucine in genere offrivano.
Un piccolo mondo antico: ciò che era di più caro a una generazione sacrificata a migliaia di chilometri di distanza in un’impresa assurda. E i nemici russi chi erano? Contadini come i nostri. Contadini che sfamavano contadini, perché c’è una radice comune nella solidarietà che nessuna guerra potrà cancellare. E la ritrovavi nelle isbe dove un bicchiere di latte o un pezzo di lardo non si negava neppure agli italiani anche se in quel frangente erano gli alleati dei tedeschi. Questo dato sociologico più che letterario sconfigge ogni retorica, sconvolge ogni strategia e se in quel momento generava solo ulteriore confusione nelle colonne in ritirata, resta come il più vivo ricordo dei sopravvissuti.
Da questo libro, da riscoprire, il grande Marco Paolini ne ha tratto uno dei suoi spettacoli: “Il sergente”, da gustare nelle oltre due ore che passano indenni come un colpo di mortaio fuori traiettoria.
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