La
nobile arte di misurarsi la palla
di Amleto
de Silva
‘round
midnight edizioni, 2014
pp. 496
12,00
Premetto
che di solito scrivo recensioni al plurale
maiestatis, non perché io sia di stirpe
nobile ma perché così mi hanno insegnato all’università nei favolosi ottanta. Tuttavia, per commentare “La nobile arte di
misurarsi la palla” di Amleto de Silva (non lo chiamerò Amlo, ché non siamo
in confidenza) userò la prima persona, dato che l’argomento mi tocca e mi
smuove qualcosa dentro. Premetto anche, a titolo d’informazione, che non sono
una “professoressa facente funzioni di
vicepreside”, che il Pd l’ho votato ma solo occasionalmente, e che qualche
volta mi succede persino di “recarmi”
dal panettiere anziché andarci e basta.
La
nobile arte etc. è un romanzo di Amleto de Silva (questo l’ho già detto),
collaboratore di Repubblica, autore satirico per Smemoranda e per Enrico
Montesano, recensore de ilmiolibro.it. Dopo essersi autoprodotto a sufficienza,
si affida alle cure della ‘round midnight edizioni per raccontare la storia di
Enea Pellegrini, del suo talento frustrato, delle sue ambizioni come scrittore
professionista e del suo incontro con il male assoluto, cioè le scuole di
scrittura.
De
Silva dichiara di non aver mai frequentato una scuola di scrittura. Nemmeno io.
Non l’ho fatto per timore che la poca autostima che possiedo ne fosse irrimediabilmente
intaccata e, stando a quanto accade al povero Enea, pare abbia agito bene. Enea
lascia la provincia e va a Roma; già al limite del suicidio per problemi
personali e familiari, investe tutto quello che ha nell’iscrizione alla Scuola,
la più prestigiosa, quella che gli aprirà tutte le porte, che lo farà diventare
un Autore Affermato. La Scuola, invece, è un nido di vipere che si mordono e si
parassitano l’un l’altra. Gli alunni sono schiavi degli insegnanti, a
loro volta scrittori di media fama che si credono Dio in terra, temono la
concorrenza come la peste e cercano di abbattere ogni altrui velleità
artistica. Alla Scuola si fa di tutto tranne che insegnare. Principalmente si
“scoraggiano” gli aspiranti scrittori, convincendoli che le loro ambizioni sono
comuni e volgari, che non possiedono capacità né talento, che avere un romanzo
nel cassetto è una vergogna, che in Italia si scrive troppo e si legge poco.
“Eh ma in Italia tutti hanno un romanzo nel cassetto. A parte che onestamente non ho mai capito cosa ci sia di male nell’avere un romanzo nel cassetto, capirei un’arma carica e senza sicura quando ho tre bambini per casa, ma un romanzo, e nel cassetto, poi.” (pag 34)
“Il fatto era che per fare quel mestiere c’era bisogno di un sacco di tempo per lavorare di fioretto sulle pubbliche relazioni, e leggere era solo una sgradevole perdita di tempo. Certo ognuno di loro sapeva benissimo cosa facevano, avevano fatto o erano in procinto di fare i loro colleghi, ma non si leggevano l’un l’altro. Al massimo si controllavano.” (pag 378)
La
Scuola è un luogo indefinito, ricorda “La ditta” de “Il Padrone” di Parise, non a caso a sua volta ispirata dalla casa
editrice dove lavorò lo scrittore di Vicenza. Costituisce una specie di sfondo
teatrale, vagamente riconducibile ad un habitat fintamente parigino, davanti al quale si muovono
personaggi che sono macchiette, caricature, parodie, ma la deformazione
surreale non è nemmeno troppa, vista la natura di tale ecosistema fatto di arrivismo,
rivalità e cattiveria.
Questo,
secondo me, avviene anche nell’universo
letterario della rete: guerre intestine fra blogger, invidie e gelosie fra
aspiranti scrittori di nessuna fama, accaparramenti di fan da una pagina
all’altra a colpi di mi piace,
spionaggio virtuale. Sebbene questa sia un’altra storia, de Silva, che ci
esorta a usare Facebook e Twitter, a scrivere sui blog, a sfruttare il self publishing, etc, sembra aver, forse
inconsapevolmente, assorbito anche parte dell'ambiente.
Egli
(come non gli piacerà questo pronome desueto) egli non è tenero con gli
scrittori, con i librai e con gli editori, ma la categoria che più aborrisce - non
a torto - è quella degli editor, i
famigerati che ti costringono a riscrivere tutto ciò che hai già scritto, a
modificarlo, a massificarlo. Chi vi parla ne ha fatto le spese, costretta a rovinare
un proprio romanzo, infarcendolo a pagamento di errori grammaticali, pena
l’esclusione dalla possibilità di essere presentata a un editore. Tale editore
risultò poi essere un banalissimo stampatore che tentò senza riuscirci di
spillarle diecimila euro. Dopodiché la malcapitata dovette, prima di auto
pubblicare il testo, cioè di rientrare a pieno titolo nella categoria degli “sfigati falliti”, passare ore a
rimettere tutto com’era prima. Ma torniamo ad Enea. Enea finisce sotto le grinfie
di Enzo Di Donna, personaggio di fantasia ma condensato di varie personalità
ruotanti intorno al mondo editoriale. Enzo è stupido, profittatore, meschino,
infido, pieno di sé e incapace di “misurarsi la palla”, cioè di essere
consapevole dei propri limiti. Enzo ruba le idee di Enea, gli distrugge il
romanzo che faticosamente e onestamente ha scritto e se ne appropria per i suoi
fini. Insomma, grazie al rapporto fra Enzo ed Enea - forse non è un caso se
entrambi hanno la medesima iniziale nel nome, essendo l’uno l’alter ego sporco
dell’altro - de Silva lancia il suo grido liberatorio: ognuno deve scrivere
quello che vuole e come vuole, non c’è una linea da seguire, non ci sono
istruzioni, l’arte non s’imbriglia e non s’insegna, l’ultimo giudizio spetta ai
lettori e non agli editor. Soprattutto non ci sono regole: se Salgari avesse
“scritto solo di ciò che conosceva”, dico io, avrebbe ambientato i suoi romanzi
in Veneto, se Tolkien avesse “preparato la scaletta” non avrebbe mai scoperto a
cosa serviva l’Anello. Ultima ma non ultima, la rivalutazione della trama che
ormai sembra scomparsa dal panorama letterario. Se hai una storia da
raccontare, se ti sei scervellato per inventarla e incastrare tutti gli
elementi dell’intreccio, scuotono la testa, ti dicono che non hai saputo
agganciare le “tendenze attuali”.
E
fin qui tutto bene, fin qui sono d’accordo con de Silva: le avventure
esilaranti e amare di Enea mi sembrano una boccata d’aria fresca e di verità in
un mondo che, più conosco, più mi nausea. Tuttavia, affiora il dubbio che l’autore
s’identifichi non solo con Enea, ma anche con il personaggio negativo. Certe
espressioni di disprezzo (come quelle verso le suddette “professoresse” o verso
le “mezze calzette da premio letterario” e il continuo dare dell’imbecille a
tutti), finiscono per coincidere proprio con l’atteggiamento di Enzo Di Donna.
Come se de Silva difendesse gli scrittori e i lettori ma, allo stesso tempo, li
denigrasse, come se la sua critica del sistema si trasformasse in autocritica
dall’interno.
Una
delle cose che più spesso afferma è che bisogna scrivere dialoghi mimetici del
linguaggio comune e quotidiano. Perfetto, giusto, ma non sempre e non solo. Esiste
anche uno stile più elegante, magari più retro,
più “da professoressa”, ovviamente nel contesto giusto, nel romanzo
appropriato. Esiste anche una ricerca formale. Il linguaggio scurrile può andar bene, far
presa, essere realistico e divertente, ma non è necessariamente l’unico immaginabile,
altrimenti tutta la narrativa, specialmente quella del “maschio standard”, come
lo chiamo io, si trasformerebbe in una sfilza di parolacce fra disperati che
raccontano le loro sventure sessuali al bar.
Categoria, questa dello scrittore maschio standard, se mi permettete,
altrettanto antipatica di quella cui appartengono le povere “professoresse
facenti funzione” etc. Ma, nonostante l’insistenza sulle parole volgari,
nonostante la tendenza a divagare e dilungarsi, nonostante non tema le
ripetizioni, in barba, appunto, alle Regole Sacre della Scuola, lo stile di de
Silva non è banale né sciatto ed è senz’altro molto divertente. Spassosa la
parodia dei luoghi comuni del mondo editoriale, dal “necessita di un robusto
lavoro di editing”, alla “lucida intellettuale post femminista”, “al doloroso
percorso interiore”, e ci aggiungo pure il terribile “romanzo di formazione”.
Ma
l’opera non è solo una ricostruzione d’ambiente in tono satirico, man mano che
procede diventa sempre più romanzo tradizionale, con dialoghi perfetti, al
limite della sceneggiatura, e una trama avvincente, che produce suspense ed
empatia verso il protagonista.
“Mentre lui la metteva sul misuriamoci i conti in banca, per esempio, io mi sentivo fallito perché non avevo nessuno che mi volesse bene veramente. Mentre a me interessava aderire a quello che sentivo, che sapevo di essere, e mi sentivo più fallito che mai mentre violentavo il mio povero romanzo, a lui interessava vincere, cioè non far sapere alla gente che era quello che era: un ladro, un adultero, un pettegolo, un ignorante, un intrallazziere.” (pag 403)
Una
trama che, alla fine, tocca le sfumature del giallo, con tutti i pezzi che
vanno a incastrarsi, con la molla che fa click e mostra ciò che è avvenuto
nelle pagine precedenti sotto una luce completamente nuova, costringendoti a un
ripensamento attivo, a una “sospensione della distrazione”. Un po’ come accade
nei libri della Rowling, e pazienza se de Silva s’infurierà per l’accostamento.
Il libro è più complesso di ciò che sembra, poiché, nella sua costruzione, usa proprio i meccanismi che mette alla berlina, in primis l’Amore, alla base di quasi tutto ciò che viene scritto e pubblicato, poi il famoso e vituperato "Arco", leggi evoluzione del personaggio. Il finale stesso può essere letto a due livelli. Il primo è una presa di coscienza da parte di Enea, un rimanere integro e pulito, un mantenere intatto il senso del proprio valore nonostante tutto. Il secondo è una parodia del genere, e in questa chiave smette di apparire forzato e sdolcinato.
Il libro è più complesso di ciò che sembra, poiché, nella sua costruzione, usa proprio i meccanismi che mette alla berlina, in primis l’Amore, alla base di quasi tutto ciò che viene scritto e pubblicato, poi il famoso e vituperato "Arco", leggi evoluzione del personaggio. Il finale stesso può essere letto a due livelli. Il primo è una presa di coscienza da parte di Enea, un rimanere integro e pulito, un mantenere intatto il senso del proprio valore nonostante tutto. Il secondo è una parodia del genere, e in questa chiave smette di apparire forzato e sdolcinato.
Comunque,
sullo scrittore-maschio- scurrile-standard, de Silva ha una marcia in più: la
marcia si chiama sarcasmo, irrisione, satira. Anche se il povero Enea non
diverrà, probabilmente, l’antieroe capace d’incarnare lo spirito della nostra
epoca, è facile che Zeno Cosini si fumerebbe volentieri un’ultima a sigaretta
con lui.
Mi
piace concludere con una frase tratta dal blog di de Silva, amlo.it:
“Perché grazie ai miei lettori ho capito una cosa, che sembra facile ma non lo è. Alla fine non conta se vai nei salotti letterari o ai premi, ma quello che fanno libro e lettore sul divano, con calma a casa loro. O sul tram mentre si va al lavoro. Cioè, il libro. Se ti piace o non ti piace. Se è scritto bene o di merda. Se c’è una storia e se c’è, se ti interessa sapere come va a finire. Il resto sono chiacchiere.”
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