di Hans Ulrich Obrist
UTET, 2014
«Spesso irregolarità ed eccezioni sono ciò che impedisce al sistema di arrestarsi».
Hans
Ulrich Obrist, Fare una mostra
Esce
il 3 giugno, nella sua versione italiana tradotta per UTET da Marina
Astrologo, Fare una mostra, l'ultimo libro di uno dei più
importanti curatori a oggi viventi e in attività (meglio sarebbe
dire: in azione): Hans Ulrich Obrist. Il nome, specie per i membri
del famigerato “sistema” dell'arte contemporanea, è uno di
quelli capaci di far “tremar le vene e i polsi”. E ci si
aspetterebbe, in base all'importanza del suo autore (a oggi
co-direttore delle Serpentine Galleries di Londra) e a un titolo così
ambizioso e onnicomprensivo, un testo altrettanto colossale. Ma al
contrario, la prima delle tante piacevoli sorprese che le 250 pagine
regalano al lettore sta proprio in una transitività generosa, in una
prosa capace di cucire abilmente insieme teorie, pratiche e aneddoti
sull' “arte del curare” intesa nel senso più ampio di “prendersi
cura di”, e in uno scrivere chiaro che molto poco ha a che fare con
le astrazioni volutamente involute di un certo gergo di settore tanto
alla moda quanto caricaturale. Fare una mostra, inoltre, non è
un libro a tesi, e nemmeno un manuale di istruzioni. L'aspirante
curator – specie se young, per l'accezione negativa
che questo aggettivo ha fatto assumere di recente al sostantivo –
non ci troverà nessun decalogo, nessun modello da imitare, nessun
consiglio formulato con il preciso intento di esserlo. E il non
addetto ai lavori, il semplice appassionato d'arte e addirittura lo
scettico, troveranno invece che l'opera sia, piuttosto, il tentativo
di Obrist di fare il punto su una situazione in divenire: vale a
dire, la propria carriera con i suoi moventi – e movimenti – i
suoi cardini, le sue aporie.
La definizione di “curatela” che l'autore nato a Zurigo nel 1968 fornisce nel Prologo. The Way Things Go, sembrerebbe preludere a un andamento del volume altrettanto “svizzero”: per Obrist, l'atto del curare eventi artistici
«sostanzialmente si riassume nel mettere in relazione le culture fra loro, accostandone gli elementi. Compito del curatore è raccordare, fare in modo che elementi diversi entrino in contatto fra loro: lo si potrebbe definire un tentativo d’impollinazione fra culture, o un modo di disegnare mappe, che schiude percorsi nuovi attraverso una città, un popolo o un mondo».
Conoscenza
e rapporto dialettico con il contesto espositivo, confronto e scambio
tra le discipline, coordinamento delle idee, delle conoscenze e delle
competenze estetiche piuttosto che imposizione dall'alto di un
progetto: sono dunque queste, dichiarate fin dalle prime pagine,
alcune tra le imprescindibili parole chiave del “verbo”
obristiano. Ma nonostante tutto, Fare una mostra non è
il testo organico che ci si potrebbe immaginare, e la struttura in
agili capitoletti serve piuttosto all'autore per ripercorrere gli
anni dell'apprendistato e i principali snodi e bivi del proprio iter
professionale. Leggendo il libro, si ha quasi l'impressione di
trovarsi a tu per tu con un romanzo di formazione: ecco Obrist poco
più che bambino che si aggira ammirato per le sale della
Stiftsbibliothek, la biblioteca della basilica di San
Gallo; eccolo cresciuto, ma ancora piuttosto giovane e
inesperto, a colloquio con il maestro Alighiero Boetti, e poi, nel
corso degli anni, impegnato a registrare centinaia di celebri
conversazioni con intellettuali, filosofi, scrittori e artisti
visivi, chiedendo loro di parlare soprattutto dei progetti non ancora
realizzati; eccolo nel 1991, impegnato a curare World Soup (The
Kitchen Show) nella sua cucina; ed eccolo oggi, adulto e rotto a
qualsiasi contorsione della pratica e delle grammatica curatoriale,
con oltre 250 esibizioni all'attivo ma ancora impegnato a ideare
progetti perennemente in progress, basati sul portato
indispensabile del pubblico, inteso non come destinatario passivo ma
come fruitore attivo del lavoro artistico. Più di tutte, conquistano
le pagine in cui Obrist confessa i suoi modelli, stelle polari e
comete che ne hanno in qualche modo illuminato la via: da Robert
Walser e Gerhard Richter ai nomi racchiusi nella sezione Pionieri,
fino all'amatissimo Sergei Diaghilev, l'inventore e impresario dei
celebri Ballets Russes di primo Novecento, figura ineguagliabile per
il suo credo nella fusione delle discipline nell' “opera d'arte
totale” di memoria wagneriana. Tutti nomi del passato,
certo, ma mai accettati passivamente e, al contrario,
perennemente interrogati secondo un'attitudine post-moderna singolare
che preferisce fare della serietà e del rigore il suo tratto
distintivo. E a testimoniare la
speranza e la fiducia di Obrist in un domani ancora migliore è
l'ultima tranche
dedicata ai Curatori del futuro, vale a dire
appartenenti a quella che, come ricorda l'autore, Douglas Coupland ha
definito la Diamond Generation, quella dei nati nel o dopo il
1989, dunque “al riparo” dai traumi degli avvenimenti storici
precedenti ma destinati a scrivere nuove pagine in base a come
sapranno gestire le potenzialità dell'era digitale e creare nuovi
format curatoriali.
A
chiudere il volume è il bel Ritratto di Hans Ulrich Obrist
firmato da Gianluigi Ricuperati, figura che, per la sua natura
poliedrica e la sua fiducia nella multidisciplinarietà, si rivela
tra le più adatte a carpire la portata di “ibridazione feconda”
che da sempre sta alla base della poetica del personaggio in
questione. Nel descrivere l'Obrist di oggi – quella «figura
trampolino» ormai capace di determinare la svolta di carriera di
qualsiasi artista emergente – Ricuperati ne traccia un profilo che
non manca di tenere conto di aspetti altrettanto rivelatori della
vita privata – che del resto lo stesso autore dichiara, per esempio,
in Treni notturni e altri rituali; tra questi, per esempio,
l'attitudine cyborg-monastica a non riposare mai, e a vivere
(autoalimentandosene) in un flusso di perenne rielaborazione di
percezioni e pensieri, il cui metronomo è «la produzione di
conoscenza costante, l'accensione di una nuova idea per ogni minuto
che passa»: come valutare altrimenti il modus vivendi di un
uomo che ha eletto a suo mantra e a suo marchio di fabbrica frasi e
messaggi come «il sonno è sopravvalutato», «non dormire» e «sono
molto preoccupato, sei un serial-sleeper»? Si vacilla solo
quando Ricuperati si sbilancia in sentenze come: «Obrist è
un'antenna sintonizzata sull'eccitazione mentale distribuita in modo
caotico nei cinque continenti». Qui, al lettore cinefilo pare quasi
di sentire un'eco distorta di: “È il mio radar per intercettare
il mondo”, la risposta che Talia Concept – l'artista
performativa disperatamente eccentrica di La grande bellezza –
dava a uno scettico Jep Gambardella che le chiedeva che cosa fosse
per lei “una vibrazione”. “Fuffa invendibile”,
così chiosava lo scafato giornalista culturale riducendola in
lacrime, e restituendo metonimicamente il pensiero non troppo
benevolo del regista Paolo Sorrentino su un certo (arido) sottobosco
creativo. Ma è una “malafede” che non dura. A Ricuperati non
interessano né la mistificazione né l'apologia in vita: al
contrario, il valore di Obrist viene riconosciuto proprio nel suo
saldo ancoraggio al reale e ai fenomeni imperfetti del suo tempo,
nonché nella sua stessa natura mortale e fallibile; vale a dire, nel
suo essere «uno dei pochi personaggi riusciti ancora capace di
comprendere l'arco integrale della sottigliezza e della debolezza
umane».
Cecilia Mariani
Cecilia Mariani