Da Pascoli a Busi è un titolo che ha del singolare. Siamo abituati alle storie letterarie che si prendono troppo sul serio, con titoli che - come frecce - tracciano intervalli temporali precisi, dentro cui muoversi con estremo rigore. Ma Pascoli e Busi sono comunemente percepiti come due punti così lontani che quando li vedi vicini sulla copertina verde nasce l'immediata curiosità di capire quale percorso abbia portato dall'uno all'altro. Vi dico subito che è meglio accostarsi a questo studio lasciando da parte le mere ripartizioni temporali, spesso tipiche di un modo di leggere i testi che trova fondamento solo nella divisione in periodi e scuole.
Più che una storia letteraria dall'Ottocento agli anni Duemila, Da Pascoli a Busi (Quodlibet Studio, 2014) è "un mosaico di panoramiche e medaglioni riguardanti temi e scrittori" sui quali Matteo Marchesini ha riflettuto con maggiore intensità nel suo lavoro critico dell'ultimo decennio, in gran parte qui raccolto.
Più che una storia letteraria dall'Ottocento agli anni Duemila, Da Pascoli a Busi (Quodlibet Studio, 2014) è "un mosaico di panoramiche e medaglioni riguardanti temi e scrittori" sui quali Matteo Marchesini ha riflettuto con maggiore intensità nel suo lavoro critico dell'ultimo decennio, in gran parte qui raccolto.
Ho incontrato l'autore alla Libreria Popolare di via Tadino a Milano, dove ha presentato il volume insieme al poeta e scrittore Umberto Fiori e a Giacomo Pontremoli della rivista Gli asini.
Il percorso - non banalmente lineare - che il critico traccia nel libro è discusso soprattutto nella Premessa che funge da introduzione metodologica alla raccolta, ma ancor di più si assapora come un discorso accurato sul rapporto tra letteratura e realtà, una riflessione necessaria sul ruolo della critica letteraria di ieri e di oggi.
Come ha sottolineato Fiori, Marchesini si confronta con gli scrittori italiani dall'Ottocento al Duemila con estrema attualità, anche usando la satira e giocando con la parodia.
Da quale esigenza prende corpo questa raccolta di scritti? Per raccontarla non si può che partire dalla già citata Premessa, di cui lo stesso autore ha ribadito la centralità.
Siamo alla prima pagina del libro e Marchesini dichiara subito lo spirito del proprio studio:
L'Otto-Novecento letterario italiano è [...] il campo di indagine che mi appassiona di più, e che perciò conosco meglio. Che mi occupi di Federico De Roberto o di Walter Siti, la prospettiva dalla quale osservo questo campo resta sempre militante, per usare un termine che suona forse logoro e pomposo, ma che non sembra avere ancora trovato un sostituto degno. Tutti i temi, come dicevo, sono filtrati da una certa idea di letteratura e cultura.
Il valore di questa introduzione è anzitutto culturale: l'idea imprescindibile è che la critica letteraria sia critica culturale in senso più ampio, che si debba rifuggire dalla concezione della letteratura come mondo in qualche forma distinto dalla realtà. Altrettanto chiaro il 'bersaglio' del suo discorso critico, espresso con grande onestà intellettuale:
La prova che l'Italia degli intellettuali non è affatto migliore dell'Italia dei politici, e del tanto disprezzato popolo televisivo, sta nel fatto che in questo microcosmo i cambiamenti di paradigma non vengono abitualmente segnati da una discussione critica e autocritica, bensì da quelle che Fortini chiamava le periodiche immersioni "in Lete e in Eunoè" della nostra classe dirigente.
La prima necessità sottolineata da Marchesini è restituire alla critica il ruolo di (ri)messa in discussione dei presupposti dati ormai per acquisiti, il ritorno a una dimensione critica che riparta dalle fondamenta. "Il problema è sempre, illuministicamente, quello di denudare gli idoli, di diffidare delle mitizzazioni, di cogliere il rapporto tra certi sinistri unanimismi letterari e certi più pervasivi fenomeni socioculturali".
Partiamo da esempi concreti: Montale, Gadda e Calvino, secondo l'autore, sono stati idolatrati con "un animismo un po' funereo". Marchesini considera questi tre nomi accomunati dall'idea della scrittura come schermo, filtro del reale. Ma "denudare gli idoli" non vuol dire banalmente delegittimarli per contrapporre loro qualcos'altro, toglierli da un piedistallo per creare nuovi podi e gerarchie. Significa, piuttosto, chiedersi per quali ragioni (eminentemente socio-culturali) certi nomi non siano sufficientemente discussi sul piano critico, perché mai nessuno sollevi "dubbi sulla monumentalizzazione a maggioranza bulgara di Gadda o Montale" o "si è pronti a incoronare senza processo Valerio Magrelli".
Marchesini non nega la rilevanza di questi nomi all'interno della storia letteraria italiana, ma si domanda realmente perché non esista una critica agonistica nei loro confronti. Qui nasce la seconda decisiva questione: la contestazione di certa critica novecentesca che è sprofondata nella palude delle poetiche e non ha scelto di essere né pienamente contenutistica ("Ai nostri nuovi contenutisti, purtroppo, il vero contenuto letterario interessa poco: i Grandi Temi che inseguono sono oggetti astratti, puri contenitori") né pienamente formalistica ("Dall'altra parte, i cosiddetti formalisti sembrano ormai i meno portati alle indagini formali").
Altri risultati di questa critica appiattita in un'inconsistente via di mezzo? L'interpretazione della poesia di Sereni solo in termini di impotenza e scacco storico, la trasformazione di Caproni in poeta filosofico, "l'inquietante santificazione della pur straordinaria Amelia Rosselli".
In senso opposto, invece, Marchesini si domanda perché non esista una vera storia della critica su Saba e vorrebbe restituire centralità a Fortini e a Moravia. Non meno rilevante il tentativo di riposizionamento di certi autori di saggistica, ingiustamente collocati alle spalle dei narratori e dei romanzieri per via di un diffuso pregiudizio umanistico-romantico.
In questo libro provo a percorrere una strada opposta. Discuto moltissimo di costume, di mentalità, di cultura diffusa, e discuto parecchio anche di dettagli stilistici, metrici, lessicali: ma cerco di non appiattire mai il singolo fatto estetico né su un tema sociale, né su un generico assetto formale, né tantomeno su una poetica.
Come ha acutamente messo in luce Potremoli, Marchesini non esprime solo il bisogno di dialogare con alcuni scrittori messi ai margini dalla critica, ma in tutto il suo lavoro di studio e di ricerca sulla letteratura e la cultura moderne e contemporanee manifesta una lucidissima attenzione alle chimere della professione intellettuale.
Questi intellettuali confermano che una certa insensibilità per il dato materiale della letteratura è spesso legata a un'insensibilità in senso lato politica [...] Basta leggere le migliaia di pagine in cui i nostri chierici più rappresentativi lamentano la volgarità di un'Italia semianalfabeta, berlusconiana e immorale: e si vedrà che lo fanno quasi sempre indulgendo a una retorica da editorialisti, trattando l'Alta Cultura come un feticcio e uno status symbol [...] Sono degni figli e nipoti dell'Umberto Eco che per scaldare le folle dei palasport contrappone alle notti del bunga bunga le notti passate a leggere Kant.Coglie consapevolmente il legame tra il diffuso culturalismo e l'accanito tentativo di mantenimento dello status quo, e quindi di un potere culturale e politico. Cosa rara tra i critici di questa generazione, Marchesini prende le distanze dall'idea di una cultura nobilitante di per sé, poiché il rischio che si corre è quello di un pericoloso impaludamento (attenzione: siamo lontani dalla tanto discussa 'Palude' denunciata da Franco Cordelli).
Da Pascoli a Busi è un tentativo cosciente di ridiscussione di certi canoni di appiattimento culturale e sociale e, a prescindere dai singoli giudizi espressi sui letterati otto-novecenteschi, il valore del libro sta proprio in questo: nel coraggio con cui uno studioso così giovane si oppone al cosiddetto "bovarismo dell'intelligenza" che ha da tempo soppiantato il bovarismo del pathos e dei sentimenti strillati.
Claudia Consoli