Tom Carver
Ianieri Editore, 2012
pp. 287
€ 19,90
Per raccontare la grande storia occorrono piccoli esempi. Perché non sono i grandi numeri a darci la misura del dramma collettivo, che il vuoto profilo dei numeri non ci restituisce nella loro drammaticità, quanto le storie personalissime di uomini e donne in cui possiamo riconoscerci, che contribuiscono a rendere tutto più umano; a calare il nostro presente nelle atmosfere cupe che i giorni della Seconda Guerra Mondiale hanno lasciato nel cuore dei nostri padri. Ecco perché raccontare una vicenda privata, come il legame che lega lo scrittore, Tom Carver, al protagonista, suo padre Richard, rende “Dove diavolo sei stato?” un libro diverso e insieme uno spaccato di storia universale, corale, drammatica e verissima, come solo la cronaca dei giorni che legarono le sorti dell’umanità alle battaglie estenuanti combattute per vincere la Seconda Guerra Mondiale può essere. Con una premessa: Richard Carver non era solo un soldato inglese, non fu solo un prigioniero di guerra, catturato nel novembre del 1942 ad El Alamain, ma fu anche il figliastro di una delle figure più note di quel conflitto, il generale Bernard Law Montgomery.
Tom Carver, da acuto giornalista qual è, riesce nell’impresa di raccontare un avvenimento, come il conflitto mondiale, da una prospettiva nuova, ma forse quello che gli preme di più è recuperare il rapporto con un padre “distante”, che non parlava mai della propria vita e di come era sfuggito alla morte, vagando per l’Italia contesa tra truppe tedesche che non si arrendevano e truppe alleate che cercavano la fine del conflitto; un padre la cui figura era stata schiacciata dalla popolarità del patrigno. La figura mitica del generale Montgomery, chiamato affettuosamente Monty, emerge chiaramente già dall’inizio; ma l’autore non ha alcuna vena celebrativa per il nonno, non stenta a ricordare il rispetto che la sua persona gli incuteva, soprattutto da giovane:
«Da ragazzo, mi impressionava molto pensare a tutto il potere che ebbe Monty. Rimanevo sempre a bocca aperta davanti ai filmati in bianco e nero dei cinegiornali che documentavano gli sbarchi del D-Day e mostravano spiagge brulicanti di mezzi da sbarco, carri armati, autocarri, trattori di artiglieria e centinaia di migliaia di minuscole figure, con elmetti e zaini, affannarsi tra le onde».
Ma, allo stesso modo, conoscendo l’uomo, oltre che l’ufficiale, restituisce al lettore un quadro realistico dei rapporti umani che regolavano gerarchie e affetti:
«Quando si serviva il caffè, avevo il compito di far girare la scatola di Black Magic. Entrai nella sala dietro la domestica porgendo, neanche fosse stato lo scettro di un re, la scatola nera davanti a me. Per prima andai alla sedia di Monty. Passandomi il braccio intorno alle spalle, mi afferrò nel suo braccio ossuto. “Il figlio di Dick” dichiarò. Monty aveva uno strano modo di tralasciare alcune parole, forse le considerava una perdita di tempo. “Il giovane Tom” aggiunse. Evitò di presentarmi come un suo nipote poiché, giustamente e per essere precisi, non eravamo consanguinei».
Con una tecnica progressiva, l’autore ci conduce dentro il racconto, regalandoci minuziosi particolari della vita privata della sua famiglia ma anche stati emotivi e considerazioni tattiche, che rendono tutto il romanzo una continua ricerca delle abitudini e degli stati d’animo dei protagonisti. Così il grande rispetto del padre, per la figura di Monty, sebbene questo fosse per lui un patrigno, viene sottolineato più volte, come l’astuzia del militare, che si conquistò la fiducia politica dei suoi detrattori e riuscì, con passione incredibile e tenacia, a diventare una delle figure mitiche nell’immaginario iconografico del conflitto mondiale. Ma non mancano nemmeno le tragedie, che accomunarono nel dolore i due uomini, per la perdita dell’amata moglie di Monty, madre di Richard, o il destino che si accanisce con un medesimo tragico lutto, anni dopo, anche sulla vita del protagonista.
Il protagonista è indubbiamente Richard, con il suo rapporto difficile, prima con l’ingombrante figura paterna, poi con i figli e le due mogli, la prima delle quali, amatissima, persa troppo presto, e soprattutto con un’impresa eroica nella sua profonda umanità: quella di un uomo che sceglie il fronte, da tutti conosciuto più per il legame che lo lega a Montgomery, che per il suo valore, che improvvisamente, proprio quando avrebbe l’opportunità di distinguersi viene catturato e si ritrova a combattere una battaglia parallela, quella con la vita alienante del campo da prigionia e poi quella avventurosa con la sopravvivenza, quando diviene un fuggitivo. Sullo sfondo l’Italia, i suoi luoghi, resi anonimi dall’abbrutimento del conflitto e poi la guerra, che non è mai un contorno, ma diviene marcatamente personaggio anch’essa, una marca spaziale che prende vita e dona una dimensione non solo temporale alla vicenda, perduta tra luoghi e digressioni, tra il passato remoto e il presente di un uomo, che quando finalmente verrà raccontato, è già solo un ricordo, nella vita di un altro.
Se è vero, che come affermava Bachtin “l’eroe farà molte smorfie, mostrerà maschere casuali, compirà falsi gesti, terrà comportamenti inattesi, a seconda delle casuali reazioni emotivo-volitive e dei capricci interiori dell’autore”, e che “l’artista che lotta per un’immagine determinata e stabile di un eroe lotta, in larga misura, con se stesso”, in questo rapporto autore-eroe, il legame è ancora più pregnante, perché l’eroe, dagli altri misconosciuto per tutta la vita, è anche un padre, che ha sentito il peso di questa lotta profondamente, quasi fino ad incarnare un altrove metaforico di risposta, alla domanda riportata nel titolo: “Dove diavolo sei stato?”. Una domanda che come afferma l’autore, ha una serie di valenze implicite: da una parte è la parete verbale dietro cui si nasconde l’uomo austero e famoso, il generale che, pone questa domanda a Richard, davanti ai giornalisti, testimoni dell’incontro in Italia, a Paglieta, il 4 dicembre 1943, a quasi un anno dalla cattura del figliastro; dall’altra, è la chiave per capire il comportamento di una figura così ambigua e anaffettiva, come quella di Richard Carver, scrutata dal figlio dopo la vita, e capita fino in fondo, solo alla morte, quando il sudario riporta ogni rapporto affettivo a quello primario, dell’uomo di fronte all’uomo.
«Aveva sempre parlato poco di se stesso, fino al limite dell’abnegazione. Pensavo che tutti i padri fossero estranei come lui. Dove diavolo sei stato? Nel contesto più ampio della vita di mio padre, la domanda di Monty era stranamente appropriata. Aveva perso molto e si era anestetizzato contro altri eventuali dolori entrando nelle nostre vite solo a tratti».
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