I figli della Repubblica. Un'invettiva
di Maurizio Maggiani
Feltrinelli, 2014
pp. 64
€ 8
I – L’incontro
Nel sabato dell’appena
trascorso Salone del libro di Torino Maurizio Maggiani ha presentato, insieme a
Paolo Di Paolo, il suo ultimo libro: I
figli della Repubblica. Un’invettiva. L’autore introduce l’opera affermando
che si dovrebbe leggere a voce alta mettendoci l’enfasi che l’indignazione
produce. Il giovane moderatore parla poco e copre la sua targhetta
identificativa che campeggia sull’altare dell’incontro: l’officiante non è lui.
Maggiani spiega in breve
l’origine del genere e la sua antichità, ma soprattutto da dove è sgorgato
tutto il libro: «sono incazzato con la mia generazione e contro di me – mette
subito in chiaro – abbiamo avuto in eredità una bellissima Repubblica e
l’abbiamo trasformata in questo spettacolo immondo». Il tono colpisce subito e
stupisce persino, anche perché pare dissonante da un certo refrain che spesso si ascolta: auto-assolutorio prima e poco dopo accusatorio.
La lettura inizia e ci si
rende conto in breve che la forma è curata, che la rabbia è ben addestrata a
non cedere all’abbaio scomposto. Con una certa frequenza si incontrano frasi
evocative ed eufoniche, e altre forti e precise. La declamazione è teatrale e
si nota subito come gli esempi della retorica latina – anche nella sua
declinazione cinematografica – siano ben presenti.
Quando prende la parola Paolo
Di Paolo sottolinea subito come sia sorprendente un’autoaccusa di un uomo della
generazione di Maggiani, quella che ha fatto il ’68, quella che ha edificato un
modo di pensare e di agire che in diversi modi ha influenzato e influenza
ancora la nostra società. Il moderatore stimola la discussione citando una
frase: «Ci hanno nutrito come meglio non avrebbero potuto, come noi non abbiamo
più nutrito nessuno.» (p. 27) e l’autore rinforza la sua catilinaria dicendo:
«Noi abbiamo vissuto a credito e ci siamo costruiti una follia, quella di poter
diventare immortali.»
Una domanda sorge spontanea
dal pubblico: cosa ha fatto eruttare l’invettiva? Maggiani spiega
immediatamente: «Stiamo arrivando alla fine della nostra vita attiva e non
abbiamo ancora pagato dazio. Abbiamo soffocato ogni possibilità di rivolta
giusta con oggetti o gadget. È ingiusto essere dimenticato prima di essere
denunciato!»
Le sue parole stimolano gli
applausi e – voltandosi tra il pubblico – tante smorfie canute e bianche.
Alcuni sembrano non condividere a pieno la prospettiva, anzi di essere
piuttosto dubbiosi: perché mettersi e metterci sul banco degli imputati?
Abbiamo sbagliato, e chi non lo fa? Non è certo la ricchezza che manca ai miei
figli o nipoti? Ma sono solo brevi e fugaci omen
ascoltati all’uscita dalla sala.
II – Il libro
La presentazione stuzzicava la
curiosità e, dato il contesto di una fiera del libro che somiglia ad un
mercato, anche io ho preso il mio etto di cultura sul banco dell’editore. Prima
sorpresa, e non così positiva, è stata il rapporto quantità-prezzo: 64 pagine,
di cui solo 50 effettive, stampate larghe e pagate 8 euro. Ma tant’è, la
letteratura d’altronde non va mica a peso!
La lettura conferma la buona
impressione formale sperimentata durante l’incontro, ma meno il contenuto. La
voce declamante ripete come un ritornello “beati noi” che vorrebbe mostrare il
capitale ricevuto e dissipato dalla generazione dei figli, ma questa parte si
dilunga forse un po’ troppo. La collera, quella più aperta e furiosa, stenta a
decollare soffocata in buona parte del libro da una malcelata nostalgia per il
tempo dell’infanzia di Maggiani e della Repubblica.
L’incedere cambia allo
spuntare nella memoria del ’68 con un tono che si fa più sarcastico:
«In che curiosa
evenienza incappammo. Con tutto quello che avevamo cogitato e vagheggiato,
l’agire ci si palesò come un’ovvia propaggine somatica, una costruzione onirica
di straordinaria vividezza sensoriale.» (p.42)
Per
Maggiani la rivoluzione culturale, come molti la chiamano, è stata il lento tradimento
di quel capitale valoriale avuto dai padri, preludio allo sperpero che avverrà
pienamente negli anni ’80, l’autore perciò ci va abbastanza leggero con la
rabbia, limitandosi ad uno scherno ironico.
L’invettiva
avanza ad intermittenze anche qui: dopo alcune taglienti battute sui
rivoluzionari a parole e sui terroristi approdati «alla serafica contemplazione
dell’indulto eterno.», c’è il ricordo dei funerali di Togliatti, di Moro e di
Berlinguer. Il punto più veemente dell’attacco arriva quasi alla fine del
librino ed è scagliato contro chi, dopo la sbornia politica, si è rimboccato le
maniche per ingozzarsi a credito:
«perché in
quella sudicia alba epocale, in quel memorabile dì di trucida festa, pagarono
tutti con il pane dei loro padri, saccheggiarono la loro eredità, diedero in
pegno l’onore altrui, e per essere certi di scolarsi fino in fondo in tutta
calma l’agognato elisir della novella giovinezza, strapparono i coglioni agli
amatissimi figli e le ovaie alle dilettissime figlie.» (pp. 57-58)