Un bianco fazzoletto
di Nora
Ikstena
Traduzione
di Paolo Pantaleo
Damocle
edizioni, 2014
pp27
3,00
Esiste
una favola di Bechstein che si chiama “Il libriccino magico”. È solo un’associazione
mentale, ma fra le dita ci ritroviamo un piccolo oggetto - chiamarlo libro non
renderebbe l’idea - cucito a mano con un filino bordeaux (lo stesso di cui,
curiosamente, si parla anche nella fiaba) capace di farci entrare in un’altra
dimensione, quella di una fresca e ventosa terra straniera.
La
Damocle edizioni ha aperto una collana, diretta da Paolo Pantaleo, interamente
dedicata alla letteratura lettone. Si tratta di piccoli gioiellini tascabili, rilegati
con un filo che porta il colore del paese in questione. “Un bianco fazzoletto” è la seconda uscita, tradotto in italiano ma
con testo a fronte in lingua originale. L’autrice, Nora Ikstena, nata Riga nel
1969, è una delle principali scrittrici lettoni contemporanee. “Lakatiņš
baltais”, cioè un fazzoletto bianco, fa parte della raccolta Dzīves stāsti Ed.
Atēna 2004.
Il
vento fresco che sentiamo è quello della buona letteratura straniera, ed è il
vento della Lettonia, terra di boschi e di laghi ma qui terra solo del cuore,
del ricordo, del rimpianto. “Quello che
era, era nella sua testa.”
La
storia narra di un vecchio lettone, emigrato da tanti anni in America. I figli
sono lontani, hanno la loro vita, la moglie è ricoverata in un istituto per
malati di Alzheimer. Lui vive da solo con un gatto.
Tutta
la sehnsucht, tutta la malinconia,
tutto lo struggimento, sono correlati alla lingua. La moglie tedesca, sposata perché
l’unica in grado di barattare la propria estraneità con la menomazione fisica
di lui, non comunica in lettone. I figli sono ormai americani a tutti gli
effetti e lui rimane solo con le voci che gli parlano nella sua lingua madre.
“In lettone lui parla solo con se stesso. Non è servita a nient’altro nella sua vita, che a parlare con se stesso. È andata così.” (pag 9)
Non
è casuale la scelta del testo a fronte, non è casuale l’aver tradotto molti
brani solo nelle note. Perché tutto si basa sulla lingua, quella che decide l’etnia
di appartenenza, che fa di un uomo ciò che è, di là da ogni documento e di là
dal luogo in cui vive. Se non si può comunicare nella propria lingua madre, si
rinuncia a comunicare del tutto. Così il protagonista ha radi contatti umani:
con la cassiera di un negozio, con un gruppo di sbandati, con una famiglia
indiana, non a caso anch’essa straniera in casa propria, anch’essa senza più
radici autentiche. Ma sono rapporti laconici, fatti di gesti pratici e concreti,
più che di parole. Non ha amici e non ne vuole perché non sarebbero lettoni, non
condividerebbero vocaboli, usi, conoscenze. Persino col gatto parla in tedesco,
come con la moglie che non c’è più con la testa, è già avviata sui sentieri di
un altro mondo.
Lui
è solo, di quella solitudine profonda e assoluta che parla a se stessa, che non
trova sbocco. Ormai c’è solo vento di parole nella sua mente (quelle stesse riportate
in lettone anche nella traduzione di Pantaleo) catene di sinonimi, patrimonio
linguistico che non si deve perdere, unico contatto con una realtà lontana che,
forse, addirittura non esiste più, di là dal mare. Il continuo ondeggiare fra coniugazione
presente e passata dei verbi è testimone di questo vento di ricordi, di quest’attaccamento
ad un tempo e un luogo che non sono più.
“Da quando è solo, sempre più gli sembra che tutto questo non sia mai esistito. Solo questo vento in testa che porta con sé parole. Solo Lui e questo vento.” (pag 23)
Ma
un incontro fortuito con una ragazza ad una fermata del pullman, una ragazza
con lo zaino che pronuncia parole proprio nella lingua del vecchio, servirà a
confermare l’esistenza del Luogo, dell’Origine delle Parole. E allora egli la
saluterà col fazzoletto, stupendola, la ringrazierà di quel riconoscimento che
è come un’autenticazione, come se gli fosse stato concesso un certificato di nascita,
di esistenza in vita, grazie al quale la sua angoscia potrà attenuarsi, la sua
solitudine contemplare aperture, persino un placarsi dell’odio verso le
origini della moglie, un cedimento all’affetto, al contatto con la realtà e con
il passato più recente. Così la conferma del Luogo di appartenenza rende
possibile anche il distacco da esso, l’individuazione della moglie in quanto mūza draugu,
“amica di una vita”, la riscoperta dell’amore e la possibilità di accomiatarsi da
lei e accettare la fine. Ar todieviņu,
addio.