Pillole d'Autore. Titiro e Melibeo: pastori d’Arcadia e servi di Roma

 GIUSEPPE RONCELLI- Paesaggio fluviale con pastore

Egloga I, ma forse non la prima in ordine di tempo, quella "programmatica" la chiamano, quella della questione degli espropriati.
Virgilio dispone i primi versi  in un chiasmo con anafora, espressione dell’antitesi fra due condizioni esistenziali diverse [Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi; nos patriam fugimus: tu Tytire, lentus in umbra(…)].
Titiro è l’Arcadia, Melibeo è Roma, mondo greco e mondo romano, l’uno antico l’altro moderno; il primo è l’idillo-invenzione il secondo la guerra civile.

L’egloga prima è il dialogo tra due pastori, Melibeo, che spinge avanti le “capellas” e Titiro- fortunate senex- che rimane a godere dei campi, della frescura ombrosa e a innestare peri.
In Melibeo c’è tutto il dramma dell’emigrante che occuperà l’Africa o la Britannia, mentre un “empio soldato” potrà possedere le terre coltivate, c’è lo sconforto dell’uomo senza protettore, l’ottica dell’oppresso che prevale in un tutto investito dalla sovversione.

L’egloga fu scritta dopo la Battaglia di Filippi(42 a.C.), anno a cui seguì la confisca delle terre ai vecchi coloni per distribuirle ai veterani di guerra e premiarli per la loro partecipazione. La confisca interessò i territori di Cremona e Mantova e gli stessi possedimenti di Virgilio, che inizialmente riuscì a mantenere grazie alla protezione di Asinio Pollione. Successivamente il nuovo governatore della Gallia Cisalpina, Alfeno Varo, dispose la confisca delle terre del poeta.
L’egloga I e la IX sono l’espressione di questa vicenda autobiografica di Virgilio, nell’una il poeta può godere ancora dell’ otium “sotto l’ombra di un ampio faggio”, nell’altra è già andato via; è Menalca, il poeta costretto al silenzio.
 Virgilio non è tutto e soltanto Titiro, come è opinione diffusa, è anche Melibeo, entrambi sono espressione dell’interiorità del poeta che nel canto bucolico trova la sua arma di denuncia.


Il premio di concedo ai veterani fu certo una condizione tragica, non solo perché bisognava trovare altrove una sistemazione, ma soprattutto perché segna il passaggio definitivo dalla Repubblica all’Impero; è la fine della Libertas Repubblicana, parola, concetto e ideale che Virgilio pone come incipit del verso 27 in posizione di rilievo, legandola ad Amarilli e opponendola a Galatea.
Servio, grammatico del IV secolo d.C., identificò nella figura di Amarilli la città di Roma e in quella di Galatea la città di Mantova; ricorre il topos classico della prosopopea delle grandi città, così come il motivo della sofferenza della natura, organismo vivente, per la partenza dei “pueri”, pastori d’Arcadia e servi di Roma.

La cadenza allitterante del primo verso e il gioco delle vocali /i/ ed /u/ conferiscono quella musicalità che ha reso la prima strofa il modello della metrica in esametri dattilici. Molti verbi sono usati nelle forme abbreviate, tipiche del linguaggio colloquiale, nel verso 18 il pronome interrogativo compare come “qui” invece di “quis, per ragioni foniche, mentre la ripetizione del pronome dimostrativo “ille”, ricalca nelle parole di Titiro l’attenzione su Ottaviano come benefattore.

L’egloga si conclude con l’immagine della quiete serale, malinconica e di partenza di un pomeriggio d’autunno, addolcita dal sentimento di solidarietà e di appartenenza ad un luogo e dal dativo di possesso “nobis” del verso 80.
I frutti maturi come le tenere castagne sono ancora di Titiro e Melibeo.





Testo di riferimento:
Virgilio, BUCOLICHE, BUR (classici greci e latini), Milano, 2013.
Introduzione di Antonio La Penna, traduzione e note di Luca Canali, premessa al testo di Luca Pennacchietti.

Introduzione e selezione dei testi a cura di Isabella Corrado.



GISBERTO CERACCHINI- Pastore dormiente
vv.1-5
Melibeo.: Titiro, tu, che stai sdraiato sotto il riparo
di un ampio faggio, componi una canzone silvestre
col modesto flauto; io lascio la patria e i suoi dolci
campi; noi fuggiamo via; tu, Titiro, sereno nell’ombra
fai risuonare i boschi del nome della bella Amarilli.




vv. 19-30
Titiro.: Melibeo, io credevo scioccamente che la città
di Roma fosse simile alla nostra qui, dove noi siamo
soliti svezzare i teneri agnelli appena nati. Così
sapevo che i cuccioli assomigliano alle cagne, e
i capretti alle madri; così confrontavo cose piccole
e grandi. In realtà, Roma si innalza tanto sopra
le altre città quanto i cipressi sui flessuosi viburni.  

M.: E perché sei andato a Roma?

T.: Libertà, che, quando la barba tagliata già cadeva
assai bianca, tuttavia si girò verso di me e venne
ben tardi, dopo che Amarilli mi ha preso e Galatea
lasciato.(...)

vv.73-83
M: (...) Melibeo, innesta ora il pero, ordina le viti. Va avanti, o mio gregge,
un dì felice: io da oggi non vi vedrò mai più, steso
in una grotta verde, sbilanciarsi su una rupe cespu-
gliosa; non canterò più; o caprette, non sarò il pastore quando brucherete il citiso in fiore e gli amari salici.
  
T.: Tu tuttavia potevi riposarti qui nottetempo su un
letto di foglie: noi abbiamo mele dolci, castagne
morbide, e abbondanza di formaggio. E ormai
da lontano i tetti delle fattorie fumano, e ombre
sempre più grandi cadono dagli alti monti.





Isabella Corrado