Sosia è
una persona talmente simile a un'altra da poter essere scambiata per
questa. Non solo: Sosia è un personaggio di una commedia di Tito
Maccio Plauto, III secolo avanti Cristo. Da un nome proprio a un nome
comune: le meraviglie dell'antonomasia.
Plauto,
per chi fosse digiuno di letteratura latina, è stato uno dei
commediografi arcaici più noti. Ha goduto di un enorme successo per
le sue pièce piccanti, colorite, con personaggi fortemente
tipizzati, primo tra tutti, il servus callidus, servo
scaltro che in un modo o nell'altro riesce a risolvere ogni
situazione. Gli si attribuiscono 21 commedie, alcune delle quali
riprese da autori più vicini a noi come Molière. Stilisticamente
si parla di “officina verbale plautina”: una capacità inventiva
assoluta, fatta di neologismi, nomi parlanti, giochi di parole,
creatività pura.
Lezione
finita, torniamo a Sosia.
Sosia
è il servo del re tebano Anfitrione, che dà il nome alla commedia,
e che viene mandato a Tebe per avvertire la moglie Alcmena
dell'imminente ritorno dal campo di battaglia del coniuge. Ma sulla
porta del palazzo Sosia incontra il suo sosia. È Mercurio, divino,
che può tutto e può anche prendere le sembianze del malcapitato per
far sì che Giove, padre degli dei, anch'egli mutato nelle sembianze
di Anfitrione, goda di una lunga notte d'amore con Alcmena. La
vicenda prosegue con cinque atti di scontri tra umani e divini,
Alcmena incinta sia di Anfitrione che di Giove, e un lieto fine
assicurato (del resto, sempre di commedia si tratta).
Ma la
parte più interessante e ricca di implicazioni psicologiche è la
prima scena.
Sosia
è giunto a Tebe dopo un lungo e pericoloso viaggio notturno.
Riflette sull'ingiustizia della sua condizione servile di un uomo
ricco, che fa di lui tutto ciò che vuole. Ma le sventure di Sosia
non finiscono qui. Tra una lamentela e l'altra si trova faccia a
faccia con qualcuno di identico a lui e che con prepotenza gli
dichiara “tu non sei
tu, ma io lo sono”.
Bel problema, soprattutto se questo è violento e ti riempie di
botte.
Sosia
in un primo momento cerca di resistere e affermare la sua personalità
con decisione. Egli è Sosia,
schiavo di Anfitrione, mandato dal padrone ad avvertire la moglie
Alcmena. Si attacca a ciò che di materiale lo circonda, ai ricordi
della notte passata. E lo ribadisce finché le botte di Mercurio lo
sfiniscono. Abbandonato alla volontà di Mercurio, arriva a dire di
essere chiunque lui voglia. Ha perso se stesso.
Per la
prima volta un personaggio della letteratura occidentale incontra il
suo “doppio”. Quante volte ancora lo farà: pensiamo a Hoffman, a
Poe, a Pirandello, a Dostoevskij.
In un
testo così antico già emerge un tema così moderno: l'alienazione.
Verbo presente nella commedia stessa al verso 399. il verbo alienare
in latino, riferito ad uno schiavo, significa “far passare di
proprietà”. Ma visto il luogo in cui questo verbo si trova,
proprio nel mezzo dello scontro di identità con il proprio doppio,
assume una sfumatura simile al nostro “diventar pazzo”. E di qui
in poi Sosia sembra veramente dar di matto: il suo discorso è
sconclusionato, fa di tutto per convincersi di non esser nel mezzo di
un sogno.
Così
ritrovarsi di fronte il proprio doppio porta alla follia. “Hai
perso il cervello”, gli dice Mercurio. E lo stesso ribadiranno gli
altri personaggi della commedia fino al finale dove l'empasse
verrà svelato.
“O
dei immortali... dove ho perso la mia identità?” ecco il lamento
di un Sosia sconfitto, che non sa più chi sia. L'incontro col suo
doppio l'ha portato a perdersi, a pensare di aver subito una
metamorfosi tragica che ha distrutto il suo essere. Un Sosia che, se
si guardasse allo specchio, probabilmente non si riconoscerebbe più.
Ci è voluto un dio per mettere a repentaglio l'identità di Sosia,
un dio che ha preso in toto le sue sembianze e lo ha convinto di non
essere più se stesso. Nel 1926 basterà un naso leggermente storto
a mandarci in crisi.
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