La
paura e altri racconti della Grande Guerra
di
Federico De Roberto
edizioni e/o,
2014
pp.
144
€
14,00
Ci
sono molti modi per raccontare una guerra, e alcuni sono ormai così
profondamente radicati nell'immaginario collettivo globale da
costituire strumenti interpretativi metaforici adatti a descrivere
qualunque tipo di guerra. In fondo, anche la guerra in sé e
per sé è un classico, nel senso calviniano del termine: vale a
dire, un fenomeno che non finisce mai di dire ciò che ha da dire, e
– malgrado i secoli, l'affinamento dei mezzi con cui viene
combattuta, le motivazioni di cui ogni volta sceglie di rivestirsi –
lo dice sempre negli stessi modi. Così, ogni guerra potrà sempre schiantare la propria propaganda supereroistica e le proprie
mitologie insensatamente agiografiche contro il crudo realismo di
testi come Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque
o Addio alle armi di Hemingway; o scontrarsi, sospinta dai propri afflati pseudo-ideologici, con la comicità paradossale, grottesca e
decostruttiva di Comma 22 di Heller, o di Mattatoio
n. 5 di Vonnegut.
Tutti
nomi stranieri, al solito. Ma in Italia non siamo proprio capaci di
fare niente, che dobbiamo sempre rivolgerci all'estero per capire
meglio le cose? Mi spiego meglio: abbiamo ovviamente, nella nostra
letteratura, testi che hanno saputo raccontare la Grande Guerra con
la profondità di osservazione, la crudezza e il realismo, per dire,
di Un anno sull'altopiano di Lussu. O dei Giorni di guerra
di Giovanni Comisso, o, più recentemente, La pazzia di Dio di
Luigi De Pascalis (di cui abbiamo parlato nella prima puntata di
#LibrinTrincea). Ma si tratta di testi che, pur nella loro grandezza,
restano legati al contingente, in modo che il romanzo di Lussu, ad esempio, perfetto come strumento analitico per la Prima guerra mondiale, non
funziona altrettanto bene per la Seconda. Da cui la mia domanda di
partenza: se dovessimo citare un testo italiano sulla Grande Guerra
che valga come chiave interpretativa per qualsiasi guerra,
cosa estrarremmo dal cilindro?
Fino
a qualche mese fa, avrei risposto con muto imbarazzo. Adesso posso
dire La paura, di Federico De Roberto, il primo racconto dei
quattro scelti dalle edizioni e/o per la raccolta derobertiana
pubblicata quest'anno, in occasione del Centenario.
La
trama è scarna e aspra come la natura delle montagne: una mattina di
agosto, l'inerzia logorante di una trincea di osservazione in
Valgrebbana è rotta dalla ripresa degli spari provenienti dalle
linee nemiche. È proprio il
momento del cambio turno al posto di vedetta, e il tenente Alfani,
per rispettare la consegna di non lasciarlo mai sguarnito, è
costretto a inviare fuori dai camminamenti, uno dopo l'altro, i
propri soldati nel tentativo di raggiungere la postazione; e quelli,
uno alla volta, muoiono sotto i colpi di un cecchino silenzioso,
invisibile, implacabile. Una minaccia impossibile da contrastare come
da evitare, poiché la disobbedienza agli ordini è diserzione: i
soldati si trovano così costretti a scegliere tra la morte come
necessità di servizio, o come condanna disciplinare. Da cui la
paura: una paura nera, che fiacca le ossa e priva della ragione di
fronte all'insensatezza del tutto.
E Alfani lo conosceva anch'egli il brivido tremendo dinanzi al pericolo certo, presente, inevitabile. Finché la minaccia è imprecisata, nello scoppio d'una granata che non si vede arrivare, in una raffica di mitragliatrice o in una scarica di fucileria inaspettata, che possono e non possono colpire, il coraggio riesce ancora facile; ma se la morte è acquattata, vigile, pronta a balzare e a ghermire; se bisogna andarle incontro fissandola negli occhi, senza difesa, allora i capelli si drizzano, la gola si strozza, gli occhi si velano, le gambe si piegano, le vene si vuotano, tutte le fibre tremano, tutta la vita sfugge; allora il coraggio è lo sforzo sovrumano di vincere la paura; allora la volontà deve irrigidirsi, deve tendersi come una corda, come la corda del beccaio che trascina la vittima al macello.
La
paura di De Roberto è quella che prova il soldato di fronte a un
deserto dei Tartari fino allora muto e tedioso, in cui all'improvviso
si manifesta il nemico tanto atteso: un nemico che continua a essere
invisibile, diventando però d'un colpo letale. Ed è la paura della
scelta insensata tra due diversi tipi di morte altrettanto
ingiustificati, con i soldati che cadono come birilli nella
consapevolezza di essere nient'altro che carne da macello sfilante in
ordinata sequenza. Una veste narrativa che arricchisce il concetto di
"inutile strage", coniato da Benedetto XV per condannare la
guerra fratricida, di una potenza simbolica devastante nella sua
scheletrica semplicità. Fino al crescendo finale: e qui vi consiglio
di non leggere l'introduzione di Antonio Di Grado prima di aver letto il racconto, perché c'è uno spoiler grande come una casa.
Ma
il fatalismo delle morti irragionevoli è solo uno dei modi con cui
De Roberto racconta l'esperienza del conflitto; gli altri tre
racconti ne sviluppano altri di tutt'altra matrice, e qui entra in
gioco il secondo elemento di sorpresa (almeno per me) contenuto nella
raccolta. Perché mai avrei pensato, conoscendo pochissimo De
Roberto, che dall'autore de I Viceré mi sarei potuto aspettare l'ironia – tragica, ma pur sempre ironia – su cui si fonda la
narrazione de Il rifugio; o la parodia divertentissima delle
agiografie belliche de La retata,
con l'ufficiale di vettovagliamento che cattura da solo quarantanove
soldati austriaci ridotti a stecchetto incantandoli con i miraggi
dell'abbondanza culinaria del fronte italiano; o il grottesco
senso di straniamento, anch'esso a modo suo più che ironico, in cui
si trova a incappare il protagonista de L'ultimo voto,
che, presentatosi a casa di una contessa per consegnarle le ultime
parole d'amore del marito eroicamente caduto, scopre che la
donna, fuori da ogni ideale, è una gretta avida stronza che subito
ne approfitta per sposarsi con un imboscato.
Nessuna
stonatura, nell'affiancare tra loro registri così diversi nel
racconto di un unico tema. Come ho detto, ci sono molti modi per
raccontare una guerra. Tanto più che quelli scelti da De Roberto,
pur nella diversità di toni e intenti, in fondo puntano tutti
quanti in un'unica direzione: la guerra è assurda, e gli eventi –
individuali o collettivi, piccoli o grandi, tragici o ironici – che
ad essa si relazionano non possono che produrre situazioni ugualmente
assurde. A partire dalla principale, quella relativa alla semplice
"scenografia" del fronte: uomini così piccoli gettati a
difendere postazioni tanto gigantesche, inospitali, prevaricanti. Da
cui l'importanza, nei quattro racconti, della componente
naturalistica delle descrizioni, che ci viene sbattuta in faccia fin
dall'incipit de La paura:
Nell'orrore della guerra, l'orrore della natura: la desolazione della Valgrebbana, le ferree scaglie del Montemolon, le cuti delle due Grise, la forca del Palalto e del Palbasso, i precipizii della Fòlpola: un paese fantastico, uno scenario da Sabba romantico, la porta dell'Inferno.
Oppure
l'assurdità dell'unità nazionale, fieramente urlata e propalata
dalla propaganda bellica e smentita dalla realtà quotidiana delle
trincee, in cui uomini di ogni regione si esprimono ostinatamente
ognuno nel proprio dialetto (tranne gli ufficiali, che parlano
italiano) in una Babele di differenze linguistiche e culturali che
costituisce il vero "carattere nazionale" della Guerra
Italiana. E il caso più riuscito è proprio il linguaggio del
protagonista de La retata,
a cui io, mentre leggevo le sue avventure in romanesco, ho appioppato
naturalmente la faccia di Alberto Sordi.
O
ancora l'assurdità, anch'essa tutta propagandistica, delle mogli in
ambasce che attendono il ritorno a casa del marito dal fronte; salvo
in quei casi in cui, come la contessa de L'ultimo voto,
non abbiano già pronte tutte le pratiche per la liquidazione della
pensione di guerra, e il letto pronto a ospitare qualcun altro che
sappia mettere al primo posto le giuste priorità.
Insomma,
cos'è stata per me la raccolta di De Roberto messa insieme da e/o?
Una grande sorpresa: la scoperta di un racconto di rara potenza che
può stare, senza nessun timore reverenziale, al fianco di quelli che
ho citato all'inizio, e di un autore che ha saputo cogliere in modo
davvero incisivo il cuore della questione: la guerra è assurda e
terribile, e gli Italiani sono un popolo, non so se di poeti santi e
navigatori, ma senz'altro di eroi e di cazzari. E forse è proprio
per questo che quella guerra, alla fine, l'abbiamo vinta noi.
Social Network