Fabio Stassi e Marco Caneschi |
Fabio Stassi per Sellerio ha pubblicato un romanzo di estrema delicatezza, “Come un respiro interrotto”, la storia di Sole, cantante dalla voce unica e universale, la storia di Matteo salvato in una serata romana proprio da questa voce, la storia di una famiglia fatta di dialetti e silenzi indecifrabili. Ma Fabio, prima di entrare fra le pieghe del suo libro, ha voluto fare un elogio specifico: «allo stato di distrazione che deve accompagnare chi scrive».
Cosa aggiungere adesso? Intanto chiarisci perché hai scelto e come hai gestito questa struttura dove alterni momenti di trama lineare e memorie di diario scritte in epoche indefinite.
«Questa storia mi abitava da molti anni. Ho scelto di raccontarla in maniera disordinata perché secondo me questi salti temporali e di voci narranti erano l’unico modo per parlare di cose perdute e trasmettere il senso di disorientamento che vivono i personaggi. Volevo che i lettori provassero le loro stesse sensazioni. Per il lettore ho un rispetto profondo, mi piace parlare di patto fra me e lui e il patto deve basarsi su una regola cardine: dichiarare guerra a ogni conformismo. Mi è stato detto: “hai scritto un mosaico degli affetti” ed è una definizione che accolgo. Intendiamoci: non è che anche in un mosaico, in una situazione in cui sono tante le tessere da comporre, non esistano regole da seguire. Intanto i capitoli: mi sono dato il 26 come numero massimo, corrispondente alle lettere dell’alfabeto. Ecco, oltre che un mosaico questo libro è un alfabeto, dove magari la Z viene prima della A ma delle lettere non ne manca una. Se vogliamo dare un’immagine della narrazione potremmo ricorrere al diagramma di un’onda sonora. E se il lettore vuole arrivare a un’integrità può farlo in un processo di acquisizione silenziosa».
Tu, di origini arbëreshë, non è che vuoi spiegarci che razza di “Corto Maltese” sei?
«Volentieri, magari si capisce il motivo per cui ho scelto di scrivere un libro a mosaico. Un mio lontano parente era don Gregorio Stassi, lo chiamavano papas, uno di quei monaci ortodossi barbuti che faceva il miniaturista all’abbazia di Grottaferrata. I miniaturisti componevano micro-mosaici con una tecnica che richiedeva infinita pazienza e amore. Era un lavoro svolto con grande modestia, in silenzio. A me piacciono sia le miniature sia le storie che nascono sottovoce e si sviluppano sempre in punta di piedi».
E questi arbëreshë?
«Gli arbëreshë erano i profughi provenienti dall’Albania che si stabilirono a partire dal Quattrocento in Molise, Puglia, Calabria, Sicilia a seguito dell’avanzata dei turchi ottomani e della morte del loro eroe, che è l’eroe nazionale albanese, Giorgio Castriota Skanderbeg. Questo loro spirito ribelle lo hanno sempre mantenuto: il famoso storico inglese Eric Hobsbawm, quello del “secolo breve”, cita la mia famiglia, gli Stassi, come una di quelle più rappresentative della rivolta dei Fasci Siciliani di fine Ottocento. Ma oltre a questa mia discendenza arbëreshë, posso vantare parenti prossimi provenienti da Buenos Aires, da Cartagine… questa simbiosi ha prodotto intanto una precisa educazione alla letteratura, intesa come educazione al racconto. Ne ho sentiti tanti, da piccolo, di ogni specie, racconti dai quali emergeva comunque una punta di nostalgia per l’emigrazione affrontata. Emigrare non è una scelta. È un dolore, ricordiamolo. La mia lingua poi, fondamentalmente, è stata il dialetto siciliano: si cresce in una lingua e non in un luogo. Sono poi d’accordo con Sciascia che i siciliani condividono con gli ebrei questo destino di diaspora. Così, nel confondere volutamente lingua e diaspora non posso non consigliare la lettura de “La lingua salvata” di Elias Canetti: anche per il premio Nobel ogni lingua ha rappresentato un sentimento. Uno stato d’animo. Qualcosa dell’esperienza di Canetti è pure nella mia famiglia».
Adesso colgo anche la genesi della famiglia della protagonista del libro, un romanzo nel romanzo.
«Devi sapere che nelle famiglie siciliane una figura di riferimento, oltre al nonno, era lo zio. E nella mia, uno zio ricopriva il ruolo di anello debole, era una persona fragile, non adatta alla vita. La famiglia lo proteggeva, in genere una sorella si faceva carico di accudire soggetti simili. Mio zio era un personaggio unico, si tagliuzzò le gambe dopo un trasloco perché non sopportava anche solo l’idea di venire sradicato di nuovo da un ambiente domestico e pur di non uscire si sarebbe amputato gli arti. Sentiva fortissima la profanazione del focolare dell’infanzia a cui era stato costretto. Nel romanzo, mi sono immaginato uno zio della protagonista, Sole, che fa lo zapatero, il ciabattino, leggendo il libro capirete la sua essenza, i suoi silenzi, la sua auto-reclusione ricercata. Qui posso solo dire che un personaggio siffatto era perfetto per il ruolo di custode della nostalgia».
Arriviamo a Sole, a questa cantante che mai inciderà un disco ufficialmente eppure…canta e resiste, resiste e canta, in contesti duri, quelli degli anni Settanta, ma è la voce di tutti gli altri che popolano il mondo. Finché…
«Sole entra nella vicenda con le parole della grande poetessa ticinese emigrata in Argentina, Alfonsina Storni. Alfonsina si suicidò gettandosi in mare, ma non da un ponte, semplicemente immergendosi per un bagno. E c’è un brano stupendo che racconta la storia e Sole lo canta. La morte per acqua ha una simbologia precisa, ce la spiega Julio Cortázar quando ricorda che è solo desiderio di ritorno, è nostalgia allo stato puro. Il libro è fortemente nostalgico, fin da quando Sole è costretta ad abbandonare la sua prima casa e appiccica post-it ovunque con i nomi degli oggetti che prima erano lì e che ora non ci sono più, dal telefono ai poster. L’unico modo per riarredare l’edificio del’animo sottoposto a una perdita è il canto. O la scrittura. Sole poi si porta dietro una profonda contraddizione: in realtà il nome è il diminutivo di Soledad. Se da un lato Sole richiama la luce e la positività, Soledad significa solitudine. Oltre a questo, il romanzo cerca di restituire dignità, almeno letteraria, alla vergogna. Nel libro ci sono tante vergogne, quella di cantare, quella di ammalarsi… oggi la vergogna è praticamente scomparsa e invece, nell’accezione di pudore, la reputo un sentimento degno e potente».
Veniamo a Matteo, il protagonista maschile di riferimento. In fondo è lui che capisce che quello di Sole è un destino di cecità e non di stonature.
«Matteo ha l’orecchio “assoluto” e lo vive come una dannazione perché “sente”. Non solo i suoni o i rumori ma i destini. E percepisce quello di Sole, la ragazza che ama e che sa che ogni volta che canta restituisce vita, salva ma non riesce a salvarsi. L’esistenza di Sole la faccio progredire da un momento molto violento: un professore di musica cieco alle scuole medie la addita alla classe imponendole di non cantare più, dopo una prima prova, per tutta la durata dei tre anni, destinandola così a una disarmonia con il mondo. Sole sarà allora ossessionata dai ciechi che però tornano in occasione di un concerto in Svizzera. È qui che Sole capisce che i ciechi non sono dei guerrieri ma neppure dei vigliacchi. Per loro esiste la musica, non certo la storia, stanno dunque fuori dal tempo, non sono neanche toccati dagli anni Settanta. Con questa agnizione Sole si muoverà nella vita, privilegiando sempre il senso di umanità, ovvero ciò che vale la pena difendere».
Il biglietto che Sole lascia a Matteo mi ha ricordato il titolo della foto che Maya Sansa ne “La meglio gioventù” scatta ad Alessio Boni. Certi momenti del tuo libro rovistano l’animo come scene di quel film, specialmente i passaggi di entrambi sugli anni Settanta. Chiudiamo con questi, violenti e nostalgici.
«Dei Settanta si è persa secondo me una cosa essenziale: l’allegria. L’allegria alimentava il senso di condivisione e solidarietà umana che vivevamo ed era questo il cuore pulsante dell’utopia. Il tempo si è ripiegato su se stesso e lamento che occorrerebbe una riflessione profonda su quanto accaduto in quel decennio. Ancora manca. Noi scrittori potremmo raccontare non necessariamente le barricate ma stare dalla parte di coloro che vivevano questo clima con infantile ingenuità. C’erano teatri, artisti, la musica, l’arte… non solo pallottole. Ecco, la letteratura, e perché no la letteratura siciliana, potrebbe dare il suo contributo: da Verga a De Roberto, da Tomasi di Lampedusa a Sciascia la riflessione sui momenti decisivi della storia di questo paese è stata fatta a partire dagli scrittori della mia isola».
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