Un noto modo di dire che viene da uno degli incipit più
famosi della letteratura recita così:
Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.
Ogni tanto, mi immagino i selezionatori e i critici dei più
prestigiosi premi letterari italiani: sono tutti seduti su ampie poltrone in
cuoio con una nutrita selezione di scotch davanti ad un camino. Sopra il camino
c’è uno stemma con inciso proprio questo motto e, forti di queste parole, i
nostri si accingono alla selezione delle opere da premiare. Se la storia è
seria, triste e angosciante finisce
nella pila dei selezionati. Non appena un romanzo fa comparire il sorriso, si
sentono in colpa, rialzano di scatto la testa verso il motto in pietra e buttano
il reo volume nella pila dei sommersi.
E’ un puerile gioco di fantasia e immaginazione, ma
scorrendo i vincitori degli ultimi decenni dei nostri premi letterari non ce
n’è praticamente alcuno che tratti di argomento volto a suscitare sorriso o
speranza. A voler essere precisi, nessun capolavoro degno di tal nome tratta di
argomenti allegri. Lo stesso “lieto
fine” viene automatico associarlo alle fiabe e alle favole che non a valide
opere.
Sento già delle proteste: alcune opere degne dell’appellativo
di “capolavoro” hanno il lieto fine. “I Promessi Sposi” ne sono un esempio. I
protagonisti passano attraverso una serie di peripezie, guerre, rapimenti,
rivolte e pestilenze, ma infine si ricongiungono come nelle migliori favole. Se
non ci fossero delle difficoltà come potrebbe un protagonista crescere ed
imparare?
Oppure: se si vuole leggere di allegro e
ridanciano, si legga un romanzetto rosa o una favola. Basta associare un genere letterario alle
proprie predilezioni o allo stato d’animo.
Obiezioni e appunti corretti. La domanda che però potremmo
porci è questa: perché, per essere
considerato di valore e degna di premi, un’opera deve per forza raccontare la
tragedia? Quando la gioia e il sorriso sono stati esclusi dalla corsa al
firmamento letterario? Aristotele nella “Poetica” ha trattato con pari dignità
sia la commedia che la tragedia, ma noi, come Jorge de “Il nome della rosa”
abbiamo cominciato a trovare il riso, se non volgare, quanto meno deprecabile
in letteratura
La mia non è una condanna di genere: molte delle opere
premiate negli ultimi anni sono di indubbio valore, sia narrativo che di prosa.
Sono pagine che raccontano realtà crude e difficili e lo fanno con grazia e forza
e si fanno portavoce di storie che vanno portate alla luce e vanno fatte
conoscere a voce alta. Ma perché non possiamo fare lo stesso anche con le
storie “felici”? Non per con il mero intento di regalare un passeggero sollievo,
ma per far sorride con intelligenza, per commuovere e sollevare lo spirito.
Perché, e ne sono sicura, non sono solo le situazioni difficili e tristi ad
insegnare qualcosa. Ci sono anche situazioni felici che possono lasciare un segno
e dare un valore.
Da piccoli, il grande piacere della lettura era
immedesimarsi con il protagonista. In questi tempi, che già sono tormentati da
soli e hanno molti giorni al sapore di lunedì mattina, chi vorrebbe
immedesimarsi nel protagonista di uno dei romanzi ultimamente premiati? Non
sarebbe bello, ogni tanto, poter leggere di una situazione con i suoi intoppi,
certo, ma con (perdonate la banalità) un po’ di luce senza però avere il
bollino di “letteratura di evasione” sulla copertina? ui
Non sono un critico; non ho letto tutti i premiati degli ultimi anni e, probabilmente, anche in quelli che ho letto ho saltato qualche chiave interpretativa. Qui mi fregio solo del mio ruolo di consumatrice di libri e mi domando: non sarebbe
bello poter dire, almeno una volta, “Ogni famiglia felice è felice a suo modo, tutte le famiglie infelici si assomigliano?"
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