Maria Luisa Spaziani, morta qualche giorno fa (precisamente il 30 giugno), aveva 91 anni.
Un’età venerabile che dà credito
alla rassegnazione ma che lascia sempre un sapore amaro, come se si sperasse comunque
in qualche eccezione alla tragica e ineluttabile compenetrazione al Nulla
originario.
Fu amica (forse qualcosa di più) di
Eugenio Montale, che conobbe nel 1949 a Torino durante una conferenza del poeta
al teatro Carignano) e spesso, anche nella sua opera poetica, aleggia lo
spirito ingombrante del premio Nobel.
Facile ma fuorviante definirla riduttivamente
“custode dell’eredità di Montale” (La Stampa) o “musa” del poeta con cui ebbe
anche una corposa corrispondenza di mille e trenta lettere e su cui ha scritto
un piccolo libro-memoir “Montale e la volpe. Ricordi di una lunga
amicizia” uscito nel 2011 da Mondadori.
Anche lei sfiorò il premio Nobel
di cui fu candidata per ben tre volte negli anni Novanta e sicuramente, se
fosse stato concesso, oggi si parlerebbe molto di più di quella che era stata
definita “la più grande poetessa italiana vivente” (si è detto lo stesso di
Alda Merini), probabilmente con un po’ di esagerazione ma con una sfumatura di
verità.
Diverse le raccolte delle sue
poesie: Primavera a Parigi (All'insegna del pesce d'oro, 1954), Le acque del
sabato, (Mondadori, 1954), Luna lombarda (Neri Pozza, 1959), Il gong
(Mondadori, 1962), Utilità della memoria (Mondadori, 1966), L'occhio del
ciclone (Mondadori, 1970), Transito con catene (Mondadori, 1977), Geometria del
disordine (Mondadori, 1981 - Premio Viareggio), I fasti dell’ortica (Mondadori,
1996), La luna è già alta (Mondadori, 2006).
La sua poetica è apparentemente semplice,
leggera, a tratti ironica. Possiede però quel tocco raffinato che appartiene solo
a una soffusa metafisica.
E forse è proprio per questo che
a Spaziani era piaciuta la definizione che aveva dato di lei Italo Calvino: “un
raro caso di poeta che sia insieme ispirato e spiritoso".
Ha tradotto dal francese diversi
autori del calibro di Racine, Flaubert, Gide, Yourcenar, e scritto diversi
racconti e lavori teatrali nonché opere di critica letteraria.
E’ nota la sua avversione senza
mezzi termini verso il gruppo 63, di cui salvava, seppure con riserva, soltanto
Antonio Porta.
Da ricordare, come fa giustamente
Fabrizio Caramagna nel suo sito “Aforisticamente”
(clicca qui)
che è stata anche attenta scrittrice di aforismi.
Un genere che amava molto, tanto
da essere Presidente onorario della Associazione Italiana per l’Aforisma ed uno
fondatori del Premio Internazionale per l’Aforisma Torino in Sintesi.
Di tutte le poesie mi piace
ricordare:
A sipario abbassato
Quando
ti amavo sognavo i tuoi sogni.
Ti
guardavo le palpebre dormire,
le
ciglia in lieve tremito.
Talvolta
è
a sipario abbassato che si snoda
con
inauditi attori e luminarie
–
la meraviglia.
E soprattutto mi ha sempre
colpito “Aspetta la tua impronta” per
quell’immagine icastica dell’indifferenza (“inferno senza fiamme”) che è uno
sprono continuo a lasciare derridianamente il proprio segno nel mondo.
L’indifferenza è
inferno senza fiamme,
ricordalo, scegliendo
tra mille tinte
il tuo fatale grigio.
Se il mondo è senza
senso,
tua solo è la colpa:
aspetta la tua
impronta
questa palla di cera.
In un’intervista definì la poesia
“una grande e continua avventura nei regni più diversi della mente, un intermediario musicale e figurato atto a creare un dialogo, un ponte verso tutti gli esseri umani soprattutto con quelli che hanno le stesse emozioni ma non trovano le parole. Possibilmente anche con chi ci seguirà nel tempo”.
Un dialogo che, nonostante la sua
assenza “fisica”, continua ad essere ancora oggi un ponte verso tutti gli
esseri umani, attraverso quello “spazio magico” che evoca in una sua poesia (che
conclude così: “Dovremmo preferire alla vita il silenzio/anche se questo
silenzio è quintessenza della vita”).
TESTAMENTO
Lasciatemi
sola con la mia morte.
Deve
dirmi parole in re minore
che
non conoscono i vostri dizionari.
Parole
d'amore ignote anche a Petrarca,
dove
l'amore è un oro sopraffino
inadatto
a bracciali per polsi umani.
Io
e la mia morte parliamo da vecchie amiche
perché
dalla nascita l'ho avuta vicina.
Siamo
state compagne di giochi e di letture
e
abbiamo accarezzato gli stessi uomini.
Come
un'aquila ebbra dall'alto dei cieli,
solo
lei mi svelava misure umane.
Ora
m'insegnerà altre misure
che
stretta nella gabbia dei sei sensi
invano
interrogavo sbattendo la testa alle sbarre.
E'
triste lasciare mia figlia e il libro da finire,
ma
lei mi consola e ridendo mi giura
che
quanto è da salvare si salverà.
Social Network