La
pazzia di Dio
di
Luigi De Pascalis
La
Lepre, 2010
pp.
302
€
22,00
(1°
ed. tascabile 2014, pp. 304, € 14,00)
Tra
i tanti racconti mitici sull'origine della guerra di Troia, una
particolarmente bizzarra è contenuta nei Cypria, poema epico
anonimo di cui ci sono giunti solo una cinquantina di frammenti.
Secondo quella versione, Gea, la Terra, appesantita dall'eccesso di
uomini che vivevano su di lei, un giorno avrebbe pregato Zeus di
inventarsi qualcosa per "sfoltirci" un po'; e Zeus, senza
pensarci troppo, scatenò una bella guerra – la guerra di Troia,
appunto. Con il duplice risultato di alleggerire di parecchio la
povera Gea e inaugurare, a modo suo, una versione embrionale del
concetto di "guerra sola igiene del mondo". 700 a. C.: Zeus
1, Marinetti 0.
Questa
storiella per dire che, anche se siamo abituati a pensare alla guerra
come a una punizione divina, non sempre è così. A volte gli dèi (o
Dio, come volete) hanno motivazioni più egoistiche, come nella
versione dei Cypria.
A
volte si limitano a distogliere lo sguardo, abbandonando l'uomo alla
violenza della natura e dei suoi simili (come in alcune
interpretazioni dell'Olocausto).
E
a volte, semplicemente, impazziscono. Come avvenne nel 1914, quando
gettarono il mondo in una guerra di proporzioni così immani da
meritarsi, per la prima volta nella storia, la qualifica di
"Mondiale". Una guerra che, per estensione territoriale,
quantità e potenza dei contendenti, modalità di svolgimento, numero
di morti e ricadute sulla psiche collettiva, non aveva nulla
in comune con nessun altro conflitto precedente. Nessuna sorpresa,
dunque, che la Grande Guerra abbia agito fin da subito da spartiacque
storico, scavando un solco profondissimo in cui si inabissarono,
disperdendosi, storie e memorie di quel piccolo mondo antico che
precedette l'inutile strage, e che non potè mai più essere, per
nessuno, lo stesso di prima.
La
pazzia di Dio di Luigi De Pascalis è proprio questo: la storia
di una generazione cresciuta tra i miti e i riti di un'era
inconsapevolmente crepuscolare, gettata di colpo nel caos senza nome
delle trincee e costretta, alla fine di tutto, a contare i morti e
ricostruire dalle macerie un mondo ormai irriconoscibile.
Siamo
in Abruzzo, nell'immaginario Borgo San Rocco in cui De Pascalis aveva
già ambientato Il labirinto dei Sarra; ed è la stessa voce
di Andrea Sarra, secondogenito della famiglia, a raccontarci "in
presa diretta" le vicende della propria vita, dal 12 marzo 1895
(quando venne al mondo nel mezzo di un'animatissima confusione di
preghiere, rosari, fumo di sigari e superstizioni familiari) al 28
ottobre 1922, giorno della Marcia su Roma. Le date sono importanti
per un romanzo incentrato sul valore delle memorie, e infatti il
racconto di De Pascalis è puntualmente scandito, a maglie ora più
ora meno larghe, dal richiamo costante al trascorrere del tempo.
Giorni, mesi e anni si susseguono inesorabili, portando con sé
ognuno la propria peculiare trasformazione, modificando,
perfezionando o concludendo il ruolo di ognuno nel mondo:
... quei primi anni passarono come dovevano passare.Chi doveva morire, morì.Chi doveva invecchiare, invecchiò.Chi doveva imparare, imparò.E chi doveva crescere, crebbe.
Un
fluire costante, ma non uniforme: il tempo è un fiume che non scorre
mai alla stessa velocità. C'è il tempo dell'infanzia, eroica,
leggendaria, innocente ed effimera come ogni infanzia che si
rispetti: con le storie raccontate davanti al camino, le amicizie per
la vita, la nascita delle prime passioni (il disegno). Un tempo in
cui genitori e parenti sono giganti, torri, antiche montagne, porte
da scassinare per accedere a mondi che intravediamo, ma che non si
lasciano ancora comprendere. Brucia intensamente, l'infanzia, e
lascia segni perenni: ma dura poco.
Così
è anche per Andrea, che ben presto si ritrova costretto a lasciare
Borgo San Rocco alla volta di Napoli, per frequentare lo stesso
"collegio degli scarrafoni" in cui da giovane era andato il
padre Filippo. Proprio suo padre lo accompagna a Napoli, e, dopo un
pranzo da re al ristorante e una visita veloce in carrozza alla
città, lo lascia sulla porta del collegio, in fretta e furia, per
scongiurare le lacrime. È il
primo dei due o tre momenti in cui, nel corso del romanzo, Andrea e
il padre cercano di sfondare il muro che li divide, per mettere in
comunicazione i rispettivi mondi interiori, così distanti e così
simili. Lo fanno con affetto, tenerezza, imbarazzo, com'è norma tra
padre e figlio; e, ovviamente, scarso successo. Sono tra i momenti
più dolci e commoventi del libro.
Il
collegio degli scarrafoni apre ad Andrea tutto un altro mondo: la
tetraggine dell'edificio, l'ipocrità rigidità dei preti, la noia
delle lezioni di latino e greco, ma anche la fervida amicizia con
Polpetta, il suo compagno di stanza, grassoccio, timido e geniale. Il
collegio e l'adolescenza richiedono un tempo più lento, perché ci
sono più cose da imparare: cose che riguardano il rancore verso le
prevaricazioni, la nostalgia di casa, il sesso, la scoperta di ciò
che si ama e di ciò che fa paura, gli ideali politici, la roboante
propaganda neo-risorgimentale. E i primi boati, sordi, lontanti, ma
costanti, della guerra.
Con
la guerra, il fiume del tempo sembra irrigidirsi: congelarsi in un
unico, interminabile istante.
Andrea
Sarra si ritrova sbalzato al fronte, e proprio nel settore più
caldo: Oslavia, Gorizia, San Martino del Carso, Bosco Cappuccio. Il
fronte dell'Isonzo: e Isonzo significa trincee. Andrea può
finalmente sperimentare sulla propria pelle che la guerra di trincea
non ha niente da spartire con l'idealismo propagandistico della
stampa e i proclami strategici degli ufficiali del Comando Supremo. I
caporioni se ne stanno nei bordelli a disegnare schemi strategici sul
culo delle puttane, mentre i soldati, carne da macello, se la giocano
ogni giorno con miseria, puzza e morte.
Non m'aspettavo niente più di quello che trovai: un inferno spoglio e freddo, ingombro di detriti e d'immondizia. Di inatteso c'era solo l'odore, un misto di sudore, escrementi umani e animali, polvere da sparo, creolina, rifiuti di cucina e qualcos'altro d'indefinibile che forse era paura e forse disperazione. In autunno quel tanfo stagnava nelle trincee, nei mesi più freddi si rintanava sotto la neve, a primavera tornava a farsi sentire e, nel corso della breve e afosa estate carsica, esplodeva insieme a tifo e dissenteria. Nei mesi caldi, peraltro, le operazioni militari s'intensificavano, sicché quel lezzo furibondo si arricchiva, si fa per dire, del fetore dei corpi umani abbandonati a marcire fra le sassaie.
La guerra occupa l'intera parte centrale del romanzo, e De Pascalis non si risparmia in potenza ed efficacia narrativa: spinge l'acceleratore al momento dell'arrivo di Andrea al fronte e lo tiene schiacciato a tavoletta fino al giorno dell'armistizio, alternando toni e registri, ma mantenendo sempre costante il medesimo, intensissimo livello di partecipazione alle vicende. Nel corso delle quali, tra combattimenti devastanti e turni di riposo al comando, la vita di Andrea Sarra si arricchisce di un elemento di cui finora era stata del tutto priva: il disincanto. Come spegnendo un interruttore, l'orrore che Andrea vede e vive disattiva in lui qualsiasi capacità di sentimento o empatia per tutto ciò che succede al di fuori sé. Con il risultato che, al ritorno a casa dopo quattro anni infiniti, la prima rovina da ricostruire sarà quella della propria personalità.
Il
tempo ricomincia a scorrere velocemente, persino troppo: il paese è
cambiato, la gente è cambiata. La guerra ha lasciato solchi anche in
chi non l'ha combattuta, sotto pelle palpita la sensazione che un
mondo scomparso stia per essere sostituito da un altro (il Fascismo
prepara il suo avvento). I cafoni sostituiranno i signori, chi prima
teneva la testa bassa ora la alza con arroganza, la situazione
sociale è più che precaria. Ad aumentare la confusione, la falcidia
prodotta dalla spagnola, che rade definitivamente al suolo ciò che
resta della mitica età d'oro di Borgo San Rocco.
Assieme alla vita di tanta gente la guerra e la spagnola avevano disperso memorie preziose che riguardavano gli anni trascorsi, gli inizi del secolo o addirittura i tempi dei tempi, quando uomini e campi erano tutt'uno. Memorie a cui nessuno avrebbe più saputo dare nome, ma che erano state la bussola di tutti, in casa e in paese.
Ma
ogni fine è un inizio, e questa non fa eccezione. Quando il vento
dell'epidemia cala, Andrea saprà trovare nuove memorie,
riallacciando inaspettatamente la propria esistenza a quella del
padre, e rifugiandosi nei suoi ricordi per costruirne di propri. Il
tempo riparte con la velocità di un nuovo entusiasmo: e stavolta è
il tempo della vita di Andrea, pronto a lasciarsi per sempre alle
spalle un mondo scomparso e ad avventurarsi in uno nuovo, esotico e
sconosciuto.
Arrivati
a questo punto (se ci siete arrivati), penserete che vi ho raccontato
tutto il libro; eppure non vi ho detto quasi nulla. Perché ci sono
libri che sono scrittura quasi quanto sono storia; e quella di De
Pascalis è parte integrante della storia che narra, e non si
lascia imprigionare in nessun riassunto. Profondamente innervata di
dialetto, a tratti rocciosa, fiabesca o ruvida, malinconica o
sensuale, la scrittura de La pazzia di Dio sa modulare il
racconto dando ad ogni parte della storia la voce che gli spetta.
Ed
è una voce reale e forte, come la vita di Andrea: che sembra la
storia di una fuga, invece è il racconto di una rinascita.
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