«Tra me e voi c’è una grande differenza. Io ho ucciso e voi no. Non tornerò più quello di prima». Il “me” in questione è Nicolai Lilin, autore di “Educazione Siberiana” e di una vera e propria trilogia personale che dalla Transnistria e i tatuaggi lo ha condotto alla Cecenia e alle pallottole. Nicolai ha scritto e pubblicato per Einaudi il romanzo “Il serpente di Dio” dove pare avere svoltato verso gli orizzonti della fiction rinunciando al prevalente tratto autobiografico. Ma è proprio così?
«Credo che quando uno scrittore apre un dialogo con i lettori porta sempre qualcosa che ha vissuto. Magari tra un libro e l’altro possono esserci varianti stilistiche, l’abbandono di personaggi reali o della trama in prima persona. Ma dentro i protagonisti di una storia resta sempre qualcosa di vissuto».
L’esordio traccia un solco fra tu e noi che stiamo ad ascoltarti, una trincea. Non possiamo che accettarlo come elemento accaduto e ascoltare la tua esperienza.
«Non sono stato in prima linea in Cecenia ma oltre la linea, andavo a caccia dei terroristi internazionali. Avevo 18 anni, in questo modo ho trascorso i due successivi, non capivo molto della vita ma ho dovuto imparare in fretta, soprattutto quello che è la geopolitica. Ero in Caucaso, questa terra dai paesaggi imponenti, i miti antichi, i luoghi magici. Ma sai qual è la sua più grande bellezza? I popoli che lo abitano, popoli fieri, dalle tradizioni consolidate. E io ero lì per difendere un popolo fratello: i ceceni. Sono un popolo degno, con un forte nucleo educativo e uno spiccato senso di comunità. Nei villaggi vivono come 300 anni fa, in un’unica grande famiglia ed è per questo che i guerrafondai americani non hanno vinto: perché si sono scontrati con questa tenacia e orgoglio».
La guerra non era tra russi e ceceni?
«No di certo, la guerra è stata causata dall’America che ha cercato di arrivare a dominare il mar Caspio, questa riserva energetica straordinaria, punto geografico nevralgico per controllare tutte le repubbliche ex sovietiche e l’Iran, dove corrono i viadotti che trasportano petrolio e gas. Per farlo, sapevano benissimo quale era lo strumento migliore: destabilizzare Cecenia e Daghestan. La guerra in Cecenia è partita sulla base di questo presupposto geopolitico, il tentativo degli Stati Uniti si tenere sotto scacco la repubblica islamica dell’Iran e sottrarre alla Russia i suoi territori storici. Le forze in campo allora erano i russi, compresi i ceceni, e i terroristi infiltrati dalla Cia grazie a uno Stato svendutosi agli americani: la Georgia».
Un punto di vista alquanto originale, direi.
«I ceceni, quelli che i vostri giornalisti hanno diffamato, ci hanno salvato da questo sporco tentativo perché sono stati i primi a rivendicare il loro essere cittadini russi rispettosi della costituzione. Voi occidentali viaggiate in Russia e andate a Mosca e San Pietroburgo. Certo, fate bene, lì c’è la Russia ma soltanto una sua parte. La vera Russia, la sua corazza è il Caucaso, è il Don con i suoi cosacchi, sono i caucasici e le genti del Don i protettori delle città che tutto il mondo riconosce come Russia».
Nel tuo libro a fronteggiarsi ci sono uomini di inaudita ferocia: in mezzo all’inferno spicca l’innocenza di due bambini, uno cristiano e uno musulmano. Ebbene, questo senso di comunità dei villaggi caucasici, di cui parlavi prima, emerge netto in una consuetudine atavica, cementata nei secoli: lo scambio di icone tra i rappresentanti delle due religioni. Il cristiano dà a una famiglia musulmana la custodia dell’icona più sacra e viceversa fa il musulmano.
«Mio fratello si è convertito all’islam ma rimane mio fratello, la soluzione di tutto quanto sarebbe vedere la diversità come un valore. Lui adesso rispetta il ramadan e io con lui ho seguito nell’ultimo ramadan i precetti di questa ricorrenza per tre giorni. Non ci può essere ostilità fra popoli e religioni. L’ostilità la crea l’arroganza della potenza americana per suoi fini geopolitici. E il mondo islamico non è una bestia pronta a sbranarci come i vostri giornalisti occidentali dipingono, aumentando la tensione e divenendone così responsabili».
Sei “scorrettissimo”.
«E lo sono ancora di più se ti dico che la sinistra è diventata succube di questo sistema capitalistico. Gli unici diritti che ritiene di difendere sono quelli astratti, ad esempio degli omosessuali. Va benissimo, io ho amici omosessuali e dentro casa propria ognuno fa ciò che vuole ma prima, a un omosessuale così come a chiunque, devi garantire i diritti sociali, le cure, un’anzianità serena con la pensione adeguata. Lo scontro è ancora tra capitalismo e socialismo».
E in Ucraina cosa sta succedendo?
«Quello che sta succedendo in Iraq, ovvero si sceglie un altro paese per motivi geopolitici, lo si trasforma in un’insignificante pedina, si pesta bene bene e se ne attende il cadavere. È questo che voi dovete capire: un potere costituzionale in Ucraina è stato abbattuto con un colpo di mano di neonazisti addestrati in campi speciali dagli americani. Adesso i neonazisti possono agire indisturbati e seminare il terrore bruciando vive le persone e assaltando i centri ebraici che ancora esistono in quella terra. Questo non lo leggete da nessuna parte, se non forse nei miei interventi sull’Espresso o sulla mia pagina facebook. E non provate a nominare Putin sull’Ucraina che non c’entra nulla».
Invece io non solo lo nomino ma ti chiedo pure della sua amicizia con Berlusconi.
«Intanto ogni paese dovrebbe essere fiero di avere un presidente come Putin, uno che fa gli interesse della sua patria. Ma poi, ragazzi, è geopolitica questa. Certo che era un’amicizia anche per i motivi che tutti conosciamo ma guardiamo a un piano superiore: è un bene che Italia e Russia siano alleate. In Russia non esiste paese al mondo amato come l’Italia, i giovani russi vogliono venire in Italia attratti dalla sua bellezza. Ecco su quali basi dovrebbe crescere questa alleanza: in una scambio proficuo tra bellezza, di cui voi siete i primi produttori al mondo, e materie prime. Io stesso sono cittadino italiano ormai, mi dovete sopportare, scrivo i miei libri in italiano e sono cresciuto con due miti, guarda caso Antonio Gramsci e Niccolò Paganini».
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