La verità di Caravaggio
di Giuseppe
Fornari
Nomos
edizioni, 2014
pp. 172
€ 19,90
Docente
non di storia dell’Arte, bensì di storia della filosofia all’Università di
Bergamo, Giuseppe Fornari propone in questo saggio un’interpretazione
personale dell’opera di Michelangelo Merisi da Caravaggio.
Confrontandosi
sia con alcune montature nate dall’enorme e crescente notorietà dell’artista
seicentesco, sia con la critica storica prima e con quella recente poi,
egli elabora una teoria non scevra da convinzioni ideologiche personali.
Parte
dall’assunto che “Caravaggio va cercato
là dove egli voleva essere trovato”, cioè nelle sue opere e, per questo
motivo, ne analizza molte in modo dettagliato e tecnico, a partire dai lavori
giovanili, definiti “precaravaggeschi”, con la loro trasparenza vetrosa e il non
rifiuto del colore, fino agli ultimi capolavori prima della morte.
I
miti da sfatare sono due: lo psicologismo e il naturalismo. A Caravaggio non
interessa la psicologia dei personaggi, ecco perché i suoi ritratti sono una
delusione sotto questo profilo. Egli inserisce la figura umana nel complesso
dell’azione, racconta un fatto così come si svolge, nella sua immediata e cruda
verità, senza scandagliare l’animo dei protagonisti e senza cercare il contatto
estremo con la realtà, bensì, piuttosto, l’allusione al simbolo religioso. (Fornari,
infatti, riconduce lo sviluppo della cultura a esperienze
estatico religiose). Il canestro di
frutta, ad esempio, presenta pomi
corrotti, in omaggio, sì, alla nuda oggettività di ciò che ci circonda, ma anche
come simbolo barocco di caducità, di effimero, di corruzione.
“Il segno determinato e determinante è quello della storicità, non dello psicologismo soggettivo, (che non è il segno nemmeno della psicologia di un Tiziano o di un Velazquez, che ci restituiscono il mistero metafisico dell’incarnazione dispiegato nella storia, non introspezioni di sapore otto o novecentesco) (pag 25)
Caravaggio
si allontana progressivamente dai colori giovanili, mutuati dall’ambiente
lombardo veneto, da Tiziano e da Tintoretto, attraversa l’esperienza plastica e
religiosa di Michelangelo, e giunge all’uccisione dei colori, all’oscuramento
della luce, lumen che si abbuia e
si condensa in un unico raggio salvifico, rappresentativo di pentimento e
grazia (Vocazione di San Matteo).
Secondo
Fornari, le opere di Caravaggio facevano discutere, sconcertavano i committenti
e piacevano al grande pubblico per la loro profonda religiosità e non per il brutale
verismo o per una “indagine galileiana” della materia. Tutto è luce e simbolo,
in Caravaggio, anche la pastosità delle forme, anche i gesti
che sono plastici ma rarefatti, allusivi. Il suo è un realismo dionisiaco e cristologico, che si sviluppa dalle prime alle ultime
opere con sempre maggiore potenza, con meno manierismo e più drammaticità,
grazie anche all’incontro con la cultura romana e la pittura piena di contenuti
di Michelangelo Buonarroti. Anche Michelangelo è profondamente religioso,
morale, spirituale. Le figure acquistano forza e si collocano in rapporto
reciproco, in un tutt’uno che cristallizza l’azione, incarna l’agire divino
nella storia (Conversione di San Paolo e Crocifissione
di San Pietro), illuminate da una luce tagliente come un raggio laser.
Immagini, insomma, a uno stesso tempo allegoriche e naturali.
Anche
all’apogeo della fama, Caravaggio non smise mai di fare ricerca, non si
accontentò di ingraziarsi i committenti con qualche opera di maniera. “Ambizioso, protervo e orgoglioso, e tuttavia
portatore di una luce segreta”, egli aveva un temperamento rissoso, violento,
malinconico, ossessionato dalla morte, com’era nello spirito del secolo, morte che
non smette di additarci in ogni suo dipinto, in modo spietato (Morte della Vergine, Seppellimento di santa
Lucia). La morte è mancanza, sottrazione, strazio lucido, tomba che ci
inghiotte.
Ripreso
poi anche da Goya è il tema della verità. La verità intesa non come naturalismo
materialista ma come accettazione della
dura realtà dei fatti, esclusione del bello, della diplomazia, della
mitigazione. E tuttavia, mentre si rivive il fatto nell’azione, se ne scopre
tutta la simbologia nascosta, la drammaticità evocativa e cristologica, la
forza redentiva. (Resurrezione di Lazzaro).
Michelangelo
ha improntato di sé un’epoca, si è proiettato verso di noi anche attraverso
Velasquez, Rubens e lo stesso Goya. Concludiamo dicendo che, forse, solo la
visione di questi classici intramontabili della pittura mondiale, potrà
salvarci dall’abbrutimento e dall’effimero.
“In anni stupidi e oscuri come quelli che stiamo vivendo, non dobbiamo mai dimenticarci di queste fantastiche creazioni, perché nel loro retaggio, nella ricchezza spirituale che ci trasmettono, e che le chiacchiere insulse da cui siamo circondati non riescono neanche a sfiorare, c’è forse la sola speranza per il nostro futuro.” (pag 9)
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