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CriticARTe - Yayoi Kusama, Infinity Net. La mia autobiografia

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Infinity Net.
La mia autobiografia
di Yayoi Kusama
Traduzione di Gala Maria Follaco

Johan & Levi, 2013

pp. 158

euro 19,00


Il binomio genio-sregolatezza – o, se più piace, genio-follia – non solo gode ancora oggi di un primato imbattibile tra le categorie interpretative del cosiddetto senso comune, ma, in qualità di spettro piuttosto resistente all'esorcismo, finisce con l'insidiare anche i più sofisticati e disincantati presupposti critici di catalogazione e valutazione artistica. Se nel corso di innumerevoli dibatti, tanto accademici quanto militanti, è stato ormai accertato come il processo di creazione estetica non necessiti di alcuna grave alterazione psichica, è però pur vero che non mancano casi in cui proprio il disturbo cosciente si pone alla base dell'impulso a “fare arte”. Ed è proprio questo che capita anche alla giapponese Yayoi Kusama, come lei stessa racconta in Infinity Net. La mia autobiografia, tradotto da Gala Maria Follaco per Johan & Levi (2013) a un decennio dalla prima pubblicazione in patria.

Si obietterà subito che niente andrebbe preso cum grano salis più della narrazione in prima persona di un'artista affetta da allucinazioni visive e auditive sin dall'infanzia, e che da diversi anni trascorre i suoi giorni all'interno di un Ospedale psichiatrico, intervallando la routine quotidiana della degenza obbligata con sessioni di pittura e scrittura, partecipazioni a grandi eventi e prestigiose collaborazioni (si pensi, tra le ultime, a quella del 2012 con il marchio del lusso Louis Vuitton). La copertina stessa del volume, del resto – dalla quale il “santino” di Kusama fissa il lettore con aria ieratica e allucinata, avvolto in una veste marezzata di pois (suo iconico segno di riconoscimento), circondato da grosse spire tentacolari e piccole zucche altrettanto punteggiate – non tramanda certo ai posteri un'immagine di sobrietà. Eppure, ciò che più colpisce delle 150 pagine di confessioni, aneddoti e dichiarazioni di poetica, è, al contrario, la sorprendente lucidità lineare con cui l'artista rievoca e riordina le principali tappe del personale percorso di crescita e maturazione che nel corso dei decenni centrali del Novecento l'ha portata dalla natia Matsumoto, nella monotona e tradizionalissima provincia di Nagano, alla caleidoscopica New York degli anni Cinquanta e Sessanta (e ritorno).

Certamente, a ben guardare, la storia di “Kusama raccontata da Kusama” non è priva dei più triti stereotipi rintracciabili in molti ritratti giovanili d'artista: ecco dunque la precoce consapevolezza di essere “una pecora nera” (1929-1957) e l'inevitabile abbandono della scuola d'arte locale e dell'opprimente casa natale, dopo infinite controversie accademiche e generazionali; ecco la fuga negli Stati Uniti, terra promessa nella quale passare dalla sua miseria più nera e totale di pittrice e scultrice “ossessiva” (1957-1966) al successo internazionale e allo status prestigioso di «regina del pacifismo e istigatrice di performance d'avanguardia» (1967-1974); ecco ancora, nonostante la dichiarata fobia per il sesso (alla base, quando sublimata, di moltissimi quadri e manufatti fin dagli esordi) la fascinazione per lo stile di vita del movimento hippy, le provocazioni alla società americana ancora profondamente bigotta e conservatrice, i pubblici oltraggi al pudore e i ripetuti inviti alla liberazione sessuale tramite happenings di tipo orgiastico; ecco ancora, fatale e persecutoria come un demone antico della stirpe, la conseguente pessima reputazione in un Giappone più che mai patrigno, incapace di rinnovarsi e di svincolarsi dalle maglie obsolete della tradizione, del maschilismo e del pregiudizio di genere: lo stesso Giappone che, anni dopo, l'avrebbe riaccolta all'interno di una struttura di cura, dalla quale comunque continuare ad adoperarsi per il suo “Rinascimento” finale, ancora all'alba del terzo millennio.

Quasi per paradosso, la sezione nella quale il lettore è più portato a sospendere la propria incredulità è quella in cui Kusama, con uno stile ancora più semplice e sincero, racconta gli incontri e gli amori di una vita, in stralci biografici che invece potrebbero più che mai risentire di mistificazioni di stampo romantico: dalla ammiratissima Georgia O'Keeffe – alla quale, ancora inesperta e avventata sconosciuta, scrisse lettere avide di consigli e raccomandazioni, e che finì col prendersi a cuore la sua causa artistica ed esistenziale – a Joseph Cornell – con il quale, nonostante la notevole differenza d'età, intrecciò una relazione tra l'accademico e il sentimentale unica nel suo genere; e poi ancora i molti compagni di viaggio, conosciuti agli esordi di carriera o nel loro divenire grandi nomi del Novecento: da Donald Judd a Andy Warhol, da David Smith a Herbert Read. La figura di Kusama, entrata ormai in questo Olimpo, è un altro nodo, artistico e umano, di questa rete di stimoli e di relazioni come da titolo potenzialmente infinita (come da titolo), metafora di una posizione sempre militante e personalissima nel sistema del contemporaneo.

Cecilia Mariani