Racconto d'autunno
di Tommaso Landolfi
a cura di I. Landolfi
Adelphi, 1995
pp. 141
€ 18
1^ edizione: 1947
Lorena Bruno
@Lorraine_books
C’è un sottile filo rosso che lega i nobili decaduti del primo Novecento. Visconti sentiva di avere molto in comune con Tomasi di Lampedusa e persino Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi rimanda echi molto simili agli scritti dell’autore del Gattopardo. Sembra stenti un po’ a entrare nel vivo questo racconto landolfiano che vede un partigiano allontanarsi dal terreno dello scontro per fuggire nel fitto di un bosco, fino a che non raggiunge una casa che sembra abbandonata. In realtà si tratta di un palazzo nobiliare senza l’antico splendore, in cui il partigiano fa fatica a entrare, per via di certi cani rabbiosi e per l’apparente assenza di un padrone. Dopo aver raccontato l’incontro ostile tra il protagonista e il vecchio abitante della casa, Landolfi si dedica alla descrizione minuziosa di tutti gli ambienti, da cui si deduce quale ricco palazzo dovesse essere stato quello. Lo spazio assume un ruolo di primo piano, quasi fosse un altro personaggio. Poi la frase
Dal poco vedutone m’era tuttavia facile concludere che essa [la casa] era di quelle che i loro stessi proprietari non si illuderebbero di possedere interamente.
Ricorda una frase molto simile del romanzo Il gattopardo, in quelle pagine in cui Tomasi di Lampedusa descrive le fughe di Tancredi e Angelica per casa Salina:
Le scorribande attraverso il quasi illimitato edificio erano interminabili; si partiva come verso una terra incognita, ed incognita era davvero perché in parecchi di quegli appartamenti sperduti neppure Don Fabrizio aveva mai posto piede, il che del resto, gli era cagione di non piccolo compiacimento perché soleva dire che un palazzo del quale si conoscessero tutte le stanze non era degno di essere abitato.
Tra i nobili del primo Novecento, quindi, era cosa buona e giusta non conoscere tutti gli ambienti delle propri amati palazzi, come del resto era normale non si sapesse con certezza la misura dei terreni di famiglia. Lampedusa amò moltissimo Le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, che lesse in lingua originale. Nelle prime pagine di quest’altro capolavoro leggiamo:
Vi sono già zone della mia vita simili alle sale spoglie d’un palazzo troppo vasto, che un proprietario decaduto rinuncia ad occupare per intero.
E di proprietari decaduti si parla nel Racconto d’autunno, perché l’ospite del partigiano non è altro che un nobile colto caduto in disgrazia. A questo punto, però, non si può proprio fare a meno di curiosare altrove sulla vita di Landolfi, per sapere se parli di se stesso oppure no.
[...] in Il principe infelice tratteggia la cupa malinconia di un principe, appunto, che vive isolato nel suo castello avendo foderato la pareti con tutti i saperi del mondo. È autobiografia? È il ritratto di un se stesso lontano dal mondo, cui offriva la crepuscolare fisionomia di un nobile decaduto, i capelli neri e lucidi stirati all’indietro, i baffi curati, tenendo invece rinserrati i propri grovigli interiori, un misto di passione e di dolore?
Un principe infelice, una cupa malinconia, non sarà mica Tomasi di Lampedusa? No, sono alcune righe del bellissimo articolo di Francesco Erbani, un vero e proprio ritratto di Tommaso Landolfi, apparso su Repubblica qualche anno fa.
Furono entrambi nobili decaduti, Landolfi e Tomasi di Lampedusa, le case nobiliari colpite dai bombardamenti vennero recuperate idealmente nelle loro opere: Landolfi si dedicò al Racconto d’autunno durante la ricostruzione del proprio palazzo, definito “Ricettacolo dei sogni”. La stessa sorte purtroppo non toccò al principe di Lampedusa, che dovette trasferirsi altrove, a nutrire giorno dopo giorno, una profonda malinconia per la perdita della sua casa natale. Colpisce il modo in cui, per entrambi gli autori, la casa natale fosse poi in larga parte identificata con la propria madre: Nel ricordo dello scrittore adulto i lineamenti della madre svaniscono, sostituiti dal luogo, dalle stanze della casa. Nel Racconto d’autunno la casa è lei, ogni descrizione è una carezza su un corpo di donna. Fino alla confessione disperata:
Ma perché mi attarderei a descriverne i menomi particolari e i menomi oggetti, di nessuna importanza per gli altri, ciascuno dei quali parlava invece al mio cuore? Basti dire che ogni cosa, il più piccolo ninnolo, le cortine del letto, le babbucce ricamate a piè di questo, lo sgabello imbottito davanti alla toeletta, e cento altre, ogni cosa serbava viva la di lei impronta ed era rimasta, lo si vedeva bene, come quando ella aveva lasciato quel luogo l’ultima volta; e potevano essere passati tanti anni!
Lampedusa non perse la madre così precocemente, ebbe con lei un legame molto forte, ed entrambi nutrirono un amore viscerale per casa Lampedusa, in cui lei, Beatrice Mastrogiovanni, volle continuare a vivere anche dopo i bombardamenti, nelle poche stanze rimaste abitabili e dove morì nel 1946; quando rincasava, da sempre Beatrice era solita poggiare le dita sulle mura esterne per poi portarsele alle labbra, tanto le erano care. E questo amore era lo stesso di Tomasi di Lampedusa, che durante la stesura del Gattopardo, mise da parte il suo romanzo per scrivere i Ricordi d’infanzia, un capitolo dei quali è intitolato “I luoghi”:
Anzitutto la nostra casa. La amavo con abbandono assoluto. E la amo ancora adesso, quando essa da dodici anni non è più che un ricordo. Fino a pochi mesi prima della sua distruzione dormivo nella stanza nella quale ero nato, a quattro metri di distanza da dove era stato posto il letto di mia madre durante il travaglio del parto. Ed in quella casa, in quella stessa stanza forse, ero lieto di essere sicuro di morire. Tutte le altre case, (poche del resto, a parte gli alberghi) sono state dei tetti che hanno servito a ripararmi dalla pioggia e dal sole, ma non delle CASE nel senso arcaico e venerabile della parola.
E ne descrive gli ambienti, con cura. Quello spazio che per i nobili era una parte fondamentale di se stessi, quasi la propria identità.
Lorena Bruno
@Lorraine_books