Finito di leggere L'avversario, ho chiuso il libro e l'ho lasciato da parte per qualche giorno, senza riaprirlo. Allontanarmi dalla storia è stata una necessità, più che una scelta; questo testo sconvolge più di quanto possa suggerire la quarta di copertina e ho avuto bisogno di tempo per riflettere sulla vicenda di Jean-Claude Romand e della sua famiglia, per assimilare quello che avevo letto.
Per cominciare, è un romanzo verità costruito su un anticlimax, Carrère compie l'interessante operazione di iniziare il libro con un picco di tensione che poi si diluisce in un racconto dai ritmi sempre diversi.
L'autore ha raccontato la storia di Jean-Claude Romand che il 9 gennaio 1993 ha brutalmente assassinato la moglie, i due figli, i genitori e poi ha dato fuoco alla casa dove viveva cercando invano di togliersi la vita.
Sono bastati pochi giorni di indagini per scoprire che tutta la vita di Romand si reggeva in realtà retta su un'enorme bugia. Una finta laurea in medicina, un lavoro inesistente, una relazione clandestina e appropriazioni indebite ai danni dei suoi familiari: per quasi vent'anni ha mentito a tutte le persone della sua vita.
Quando il castello di menzogne che aveva costruito stava per crollare ha deciso che il peso degli sguardi degli altri sarebbe stato impossibile da sopportare e che con una strage avrebbe risparmiato a loro la sofferenza e a se stesso la vergogna di una vita di falsità e fiducia tradita.
Il caso Romand meravigliò tutti: com'era possibile che un uomo così mite e rispettato fosse capace di tanta efferatezza?
Con questa domanda Carrère comincia un viaggio nella vita dell'uomo dall'infanzia agli ultimi tragici gesti. Le menzogne sono le tessere di una personalità che si svela come le scatole cinesi: la paura, il senso di inadeguatezza, l'incapacità di crescere e di rapportarsi con le donne, la frustrazione.
L'eccezionalità del romanzo sta nel dialogo tra lo scrittore e l'assassino, mai considerato un oggetto di studio ma sempre guardato con "gravità compassata e compassionevole". Carrère non è un giornalista in cerca di scoop e neanche per un momento è mosso da malsana curiosità o smania del sensazionale: è un uomo che cerca di capire un altro uomo, che vuole vedere cosa ci sia dietro il "mostro", quali forze lo abbiano soggiogato per anni portandolo a un gesto così estremo.
L'eccezionalità del romanzo sta nel dialogo tra lo scrittore e l'assassino, mai considerato un oggetto di studio ma sempre guardato con "gravità compassata e compassionevole". Carrère non è un giornalista in cerca di scoop e neanche per un momento è mosso da malsana curiosità o smania del sensazionale: è un uomo che cerca di capire un altro uomo, che vuole vedere cosa ci sia dietro il "mostro", quali forze lo abbiano soggiogato per anni portandolo a un gesto così estremo.
Come il Truman Capote di A sangue freddo, Carrère ci regala una straordinaria analisi del male, spingendosi in fondo fino a un contatto molto pericoloso con l'Avversario, il Diavolo che guida le più terribili azioni umane.
Non è il racconto di un cruento fatto di cronaca nera, è la ricerca di un senso - se un senso mai possa esserci - nel male della vita ed è attraverso la scrittura, attraverso il romanzo, che quest'esperienza umana viene indagata. Senza una minima punta di voyeurismo, senza l'arroganza del facile giudizio, ma con il rispetto verso la sofferenza altrui e la consapevolezza di essere umani, finiti, incapaci di comprendere ogni cosa.
Edizione di riferimento: Emmanuel Carrère, L'Avversario (traduzione di Eliana Vicari Fabris), Milano, Adelphi, 2013, pp. 169.
Egregio Signore, benchè la mia richiesta possa urtarla, ho deciso di tentare ugualmente [...] La tragedia di cui lei è stato autore e unico superstite mi ossessiona fin dal momento in cui l'ho appresa sui giornali [...] Ai miei occhi ciò che lei ha fatto non è opera di un comune criminale, né di un pazzo, ma di un uomo spinto all'eccesso da forze che l'hanno soggiogato, e sono queste terribili forze che intenderei mostrare all'opera.
Ho cominciato un romanzo, la storia di un uomo che ogni mattina baciava moglie e figli, poi usciva fingendo di recarsi al lavoro, ma in realtà andava a camminare senza meta nei boschi innevati [...] L'ho portato a termine in pochissimo tempo, in maniera quasi automatica, e ho capito subito che era di gran lunga la mia opera migliore [...] Se ero diventato scrittore, era per scrivere quel libro. Cominciavo a sentirmi vivo.
Ricalcando i suoi passi provavo pietà, una straziante simpatia per quell'uomo che aveva errato senza meta, anno dopo anno, chiuso nel suo assurdo segreto, un segreto che non poteva confidare a nessuno e che nessuno doveva conoscere, pena la morte. Poi pensavo ai bambini, alle fotografie dei loro corpi scattate all'Istituto di medicina legale: orrore allo stato puro, un orrore tale da costringerti a chiudere gli occhi, a scuotere il capo la realtà.
L'ultimo anno è trascorso sotto il peso di quella minaccia, che prima incombeva sulla sua vita in modo diffuso. Ogni volta che incrociava qualcuno, che qualcuno gli rivolgeva la parola o il telefono squillava a casa sua, l'angoscia gli stringeva lo stomaco.
Mentre tornavo a Parigi per rimettermi a lavoro, non vedevo più ombra di mistero nella sua lunga impostura, ma solo una misera commiserazione di cecità, disperazione e vigliaccheria. Ormai sapevo cos'accadeva nella sua testa durante le lunghe ore vuote trascorse nelle aree di servizio o nei parcheggi dei bar, era una cosa che in qualche modo avevo vissuto anch'io, e che mi ero lasciato alle spalle. Ma mi chiedevo: che cosa accade, adesso, nel suo cuore durante le ore notturne di veglia e di preghiera?
A cura di Claudia Consoli
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