Stavolta in ascolto sono rimasto io, perché ho avuto l’onore di poter interloquire con il grande genetista e biologo molecolare Edoardo Boncinelli in occasione della presentazione del suo “Alla ricerca delle leggi di Dio”, Rizzoli. Un libro che attraversa tutta la storia della fisica, dalla meccanica classica alla quantistica, che è anche un’attraversare la filosofia e innumerevoli suggestioni. La prima cosa che mi è saltata agli occhi è stata proprio una frase di Boncinelli:
«Tutti coloro che sottolineano esageratamente ogni mutamento nella scienza e che parlano di un certo numero di rivoluzioni scientifiche, mostrano di ignorare, più o meno in buona fede, che i problemi nuovi o nuovissimi hanno un cuore antico».
Ed ecco l’interpretazione autentica:
«Bisogna dire che Ginettaccio Bartali sbagliava ad affermare: “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”, o meglio non pensando alla fisica poteva anche avere ragione. Al di là delle battute, né in fisica né in filosofia ciò che ci precede è da gettare nel cestino, nonostante il succedersi di pensieri e scoperte. Quel che è stato detto ieri resta valido in certi ambiti. Newton può ancora essere adoperato per spiegare automobili e aeroplani, magari non per l’i-pad. Sulle altissime velocità, le formule di Newton scricchiolano, è servito Einstein per perfezionarle. Attenzione: perfezionarle, non cancellarle. Se guardo dentro a un tavolo qualsiasi con gli occhi della fisica quantistica lo vedrò in un modo, ma lo posso guardare ancora con gli occhi della meccanica classica che, in fondo, restano davvero gli occhi del mondo. Le conquiste della fisica, in genere, valgono per un buon periodo di tempo, finché questa disciplina non compie un volo straordinario e improvviso e pone nuovi problemi. Oggi, ad esempio, i nuovi problemi vengono sollevati dai quark, così questa frontiera della ricerca scientifica finirà per aggiustare i termini acquisiti fino a oggi».
Gli uomini del Settecento avevano un gigante a fare ombra, per l’appunto Newton, tanto che pareva che con lui la fisica potesse dirsi chiusa. La fine della storia è un tema ricorrente, anche in ambito politico c’è chi l’ha teorizzata, ricordo il libro di Francis Fukuyama dopo il 1989. A Max Planck, fondatore della fisica moderna, il professore disse: “che si laurea a fare in fisica visto che è già stato tutto spiegato e suona così bene il pianoforte?”. C’è la possibilità, o il pericolo, del dare per acquisito o di arrivare a una teoria definitiva? E spiegato tutto, finisce veramente tutto?
«Ogni tanto l’uomo si esalta e parte a testa bassa. Quando nel Settecento erano convinti di avere quadrato il cerchio, ancora dovevamo studiare, quindi scoprire, perfino l’elettricità e il magnetismo. E parlo di due fenomeni… comuni, non dei quanti. Quando a Planck fecero quel discorso stava per crollare tutto. Si cominciava a conoscere l’elettrone, il vero e proprio folletto della fisica, ma ben più tardi è arrivato il nucleo e più tardi ancora l’anti-materia. Quando ho cominciato a occuparmi di fisica, negli anni Sessanta, c’era un’atmosfera soddisfatta. In realtà restava da scoprire il mondo. Oggi si parla di modello standard che tuttavia tanto standard non è visto che non contiene l’elemento della gravitazione. Per cui necessita di correzioni e sia chiaro queste correzioni stiamo già cominciando a introdurle sentendo tuttavia che ancora qualcosa manca. In primis, resta da mettere d’accordo fisica quantistica e relatività generale. Per non parlare della materia oscura, che dovrebbe essere una percentuale notevole dell’intera materia dell’universo, che attende spiegazioni».
Come è potuto riuscire l’uomo a confrontarsi, con un certo successo, con due mondi come l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. Cosa ha dentro questo primate evoluto per riuscire a prescindere dalla sua dimensione?
«L’immaginazione. L’uomo è in grado di immaginare ciò che non c’è. Il non presente. L’evoluzione fino a un certo punto ci aveva attrezzato per il nostro mondo fatto di metri e ore, misure infime rispetto a quelle che sono diventate le misurazioni del tempo e dello spazio in nostro possesso. Dalla fine dell’Ottocento ci siamo poi scontrati con il grandissimo e il piccolissimo: se quest’ultimo rappresenta una novità, a parte alcune rare intuizioni nella storia del pensiero come possono essere stati gli atomi per Democrito e Leucippo, con il grande abbiamo sempre avuto a che fare, in termini di stupore e smarrimento. Il cielo lo guardiamo dalla notte dei tempi e i primi miti sono, non a caso, uranici. Io credo che l’uomo può andare oltre alla sua dimensione sia per una questione di numero sia per una certa capacità biologica. Un uomo solo non avrebbe neanche l’idea di un microchip e farebbe degli errori di logica pazzeschi. In tanti, invece, parliamo e diamo vita alle culture. Il cervello inoltre è composto da 100 miliardi di neuroni, numero straordinariamente simile a quello delle galassie nell’universo e al numero delle stelle per ogni galassia. Due neuroni è come se si toccassero con 10.000 mani. Moltiplicate 100 miliardi per 10.000 e capirete che rete si crea in questa nostra macchina nascosta. Se ciò non bastasse, lo sprone decisivo è la smisurata bramosia di conoscere, l’orgoglio della scoperta e il desiderio di contemplarla».
Per la luce e per le particelle che la compongono, i fotoni, il tempo non passa. Sono fissati per sempre in un attimo di eternità. Questo è un concetto che scomoda Dio. Siamo allora legittimati a parlare del famigerato bosone di Higgs come della particella di Dio?
«La luce sono tanti pallini che colpiscono il mio occhio. Tuttavia la retina è sensibile anche a un solo fotone, tanto per sottolineare il nostro grado di raffinatezza. Higgs si pose il problema di come spiegare la massa delle particelle ma il richiamo a Dio è solo frutto di una sofisticheria editoriale che impose all’autore di un libro divulgativo, il fisico americano Leon Lederman, di cambiare il nome di questo bosone, nel titolo del saggio, da particella “dannata” a particella “di Dio”. La motivazione: con Dio nel titolo si vendono più copie. In realtà il bosone di Higgs esiste, è stato scoperto da poco e ha caratteristiche simili a quelle previste. Ma, e forse è più un diavoletto burlone che un tranquillo cherubino, ne ha anche di inattese. E queste aprono un nuovo capitolo».
Esiste un canone insuperabile, un principio ordinatore che emerga da un quadro cosmico altrimenti anarchico e sfuggente fino ai limiti dell’insondabile o del mero probabilismo?
«Certo: è il principio di causalità. Nessun effetto può mai trovarsi nel passato di una sua causa. Questo è il motivo per cui non è possibile viaggiare indietro nel tempo, nel passato. Non è possibile impedire che i nostri genitori si incontrino, come ci hanno fatto credere i film al cinema. Non chiedetemi di viaggiare nel futuro. A fare che se il futuro non esiste? Verso il nulla? Se le cose non stessero in questi termini, d’altra parte, non ci potrebbe essere alcuna forma di comunicazione, né di comprensione o memoria perché non ci sarebbero distinzioni fra gli eventi e il loro ricordo, fra la predizione, l’aspettativa, la verifica. O la smentita. D’altronde già 24 secoli fa il drammaturgo greco Agatone aveva scritto: “anche a un dio è negato cancellare il passato”».
A un biologo molecolare non posso chiedere infine: cosa resta dell’anima, quel tramite necessario per il cristianesimo fra noi e Dio?
«Nulla. Proprio un bel nulla. Che si parli di anima, che si parli di mente, il braccio secolare della prima. Se volessimo trovare a tutti i costi una sostanza così identificabile non ne saremmo in grado anche se, ammetto, resta un sapore di inspiegato a certe sensazioni personali, a certe coloriture emotive».
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