La melodia di Vienna
di Ernst Lothar
Edizioni e/o
Edizioni e/o
2014
Una saga familiare? Liquidare La melodia di Vienna con una così stringente etichetta non rende giustizia, né al suo autore, Ernst Lothar, né ai lettori.
Si è di fronte, invero, a un capolavoro: e come tutti i grandi capolavori, si è, quindi, di fronte a un macrocosmo.
Nelle (quasi) seicento pagine del romanzo, (ri)edito dalle Edizioni e/o, in traduzione di Marina Bistolfi, c’è tutto, e c’è ciascuno.
C’è la Storia, c’è il nuovo mondo, ci sono i cambiamenti, c’è la tecnologia che avanza, c’è l’adeguamento dei costumi, c’è la musica, c’è l’arte, c’è il teatro. Ma soprattutto c’è una famiglia: gli Alt. E c’è una casa, che racchiude il microcosmo domestico, fatto di intrecci, di passioni, di bugie, di verità, di affetti malsani, ma anche di affetti benevoli. Un microcosmo che, pur sottendendo la volontà di farsi macrocosmo, esce sempre sconfitto. Ma quel senso di sconfitta, di attese disattese, di speranze illusorie e vane, che pervade ogni singola riga del romanzo, si riscatta in una armonia che tende alla perfezione, ma che non può essere perfetta per volontà e per sua stessa natura.
Lothar racconta la Storia, ma lo fa in maniera garbata, quasi discreta, filtrando tutto attraverso le emozioni dei grandi protagonisti del romanzo. I fatti storici appaiono, quindi, in una prospettiva che tanto volutamente è parziale, quanto volutamente è disincantata.
Nel raccontare la prima Guerra mondiale e gli scorci della Seconda, l’autore si serve dei sentimenti dei suoi personaggi, delle loro bramosie, dei loro intimi desideri, delle loro ambizioni: e non sempre la famiglia, tale per sangue, si rivela tale per interessi e ideologie.
Si diceva la Storia ufficiale, ma anche la storia di una famiglia, perennemente concentrata sull’auto-conservazione e sulla sopravvivenza, a costo di implodere. Una famiglia che racconta di tutti, senza correre il rischio di apparire sommaria: ogni personaggio ha una fisionomia ben definita, che rimanda, ma non è mai uguale a quella di un altro. Si scoprono affinità lontane decenni, paternità illecite, e ritenute lecite per l’affetto, matrimoni soffocanti che riprendono alito di vita dall’esalazione dell’ultimo respiro.
E di sottofondo un mondo che vorticosamente, faticosamente, incessantemente cambia:
Cosa lo aveva condannato ad appartenere a quella famiglia, davanti alla cui pietrificazione era seduto ora? Quell’uomo aveva novant’anni e non aveva ancora capito che la salvezza non risiedeva nell’essere di ghiaccio! Che una persona non aveva bisogno di altro, non voleva altro che calore! (p. 458).
Uno scontro tra due generazioni, anzi tre: lo spirito di Sophie Alt, unica superstite tra i figli del costruttore, aleggia anche dopo la sua morte. Compare in tutta la sua alterigia nelle prime pagine del romanzo, come una presenza intermittente fisicamente, ma perennemente all’ombra di ogni decisione e di ogni parola. Nonostante la contraddizione iniziale, accetta la costruzione di un quarto piano, dove andrà ad abitare il nipote, Franz, con la giovanissima sposa, Henriette, vera protagonista, a parere di chi scrive, de La melodia di Vienna. O forse, essa stessa melodia di Vienna.
Donna che, pur rifiutando le logiche della famiglia Alt, vi entra proprio per le convenzioni, per insabbiare uno scandalo materno: e proprio quelle logiche avranno la meglio, senza, tuttavia, scalfire il suo animo vanesio, che emergerà nelle due grandi relazioni extraconiugali.
Sovrana sugli scandali, sulle convenzioni, sulle Guerre, sui componenti della famiglia Alt, la ditta di pianoforti, fondata da Christoph Alt: la versione austriaca della “roba” verghiana, vero tesoro da aumentare, e da conservare, nonostante un mondo in perenne movimento tellurico.
E un angelo, il cui mistero apre il libro, che sembra scomparire nelle pagine dell’epopea, ma che resta impresso nella mente del lettore, perché compare sempre, indirettamente o direttamente, come sovrano custode dell’abitazione.
[…] un angelo nudo del tipo che a Vienna era chiamato angelo musicante. Suonava una tromba dall’aspetto piuttosto strano. La sua canna lunga e sottile, che lo scalpellino aveva allungato quanto più aveva accorciato esageratamente il braccio nudo che la sosteneva, si drizzava verso l’alto come una lancia; neppure il disco sottile alla sua estremità contribuiva a conferirle l’aspetto di una tromba: sembrava piuttosto un’arma. L’angelo, del quale si vedevano l’ala destra e il corpo probabilmente più grasso che si fosse mai librato su compatte nubi di pietra, si rivelava invece un classico angelo barocco austriaco. Soffiava forte nello strumento, gonfiando le gote. (pp. 13-14)
Un angelo che tornerà alla fine, svelando la sua vera identità: Ernst Lothar, il quale, forse proprio per non dare al suo romanzo la parvenza di “saga”, decide di mettere in epilogo la genesi.
Una genesi che porta in seno la precisa volontà di offrire uno spaccato dell’Austria, delle sue contraddizioni, delle sue ambiguità, ma anche delle sue bellezze, delle sue debolezze e dei suoi vizi, ma anche del suo istinto di auto-conservazione, patriottico. Un’Austria terribilmente e scandalosamente bella, di facciata; ma anche un’Austria intimamente percorsa da dubbi e incertezze, da deviazioni dalla norma restituite con la parvenza della normalità.
Un’Austria severa, fiera e orgogliosa; ma anche un’Austria facilmente corrompibile.
Ma anche una genesi che porta in seno le contraddizioni, i segreti, le bugie, le verità e gli affetti di una famiglia, che potrebbe essere quella di tutti, di ciascuno e di nessuno. Una famiglia che sa tacere solo se costretta (dalla malattia, dai ricatti, dall’affetto morboso e innaturale). Una famiglia che parla, a sproposito, quando dovrebbe soltanto chiudere il portone di casa. Una famiglia che si sacrifica in nome di un qualcosa che sopravvive solo nelle mura di una casa, che porta il marchio di un testamento, di una prigione legalizzata.
Ma una famiglia, che come l’autore scrive nell’epilogo, rinascerà dalle ceneri, come l’araba fenice. Un’araba fenice che porta tra le sue ali un verbo: edificare. A tutti i costi.
Un romanzo che prende il lettore in una spirale magnetica: difficile saltare anche solo una parola, pena la perdita definitiva e totale del filo del discorso, che non può essere ripreso, nemmeno leggendo a posteriori quello che si era saltato. Una lettura che non è mai uguale a se stessa: perché, come i fatti che narra, sempre pronta a implodere, a esplodere. E le schegge che lancia non sempre cadono nello stesso punto.
Una scrittura che poco lascia al non detto, che spiega ogni piega del tempo e dello spazio, che trova ragione di esistere in se stessa, nelle azioni che racconta.
Un libro formidabile quasi all’inverosimile, che lascia a bocca aperta, senza, però, provocare domande, perché in sé contiene già tutte le risposte.
La melodia di Vienna ha solo un grave difetto, strutturale alla sua stessa natura: quello di concludersi.