Questi barbari inglesi
di Grant
Allen
Traduzione
di Nicola Leporini
Marchetti Editore, 2014
pp. 138
10,00
“Questi barbari inglesi”, traduzione di “The British Barbarians”, di Grant Allen,
edito da Marchetti, apre la collana “Dodo d’oro”, formata da opere in lingua inglese che, per vari motivi, sono scomparse della memoria
culturale e quindi non sono mai state tradotte in italiano prima d’ora.
Come
afferma l’autore stesso nella prefazione, “Questi
barbari inglesi” mira a “rappresentare
punti di vista (…) nella narrativa romantica piuttosto che in saggi ponderati”.
E il romanzo, in effetti, è una commistione di tre generi: blanda fantascienza,
narrativa sentimentale e pamphlet. In
realtà, propende verso la terza via, le altre due sono solo dei pretesti per
rendere più accattivante la materia.
Charles
Grant Blairfindie Allen è nato in Canada nel 1848 ed è vissuto tra Stati Uniti, Francia e Gran
Bretagna. Vicino di casa di Arthur Conan Doyle, agnostico e socialista, amico di
Spencer, sostenitore dell’evoluzionismo di Darwin e delle teorie antropologiche di
Frazer, molte delle sue opere, a partire da “The Woman Who Did” – che narra la vicenda scandalosa e drammatica di
una ragazza madre – sono animate da un prepotente spirito critico nei confronti
della società britannica, inquinata dal culto della rispettabilità a tutti i
costi e dal moralismo ipocrita dei borghesi sepolcri imbiancati.
Nella
Londra vittoriana, piomba dal nulla l’affascinante e compito Bertram Ingledew,
a sconvolgere la vita di Philip Christy, di sua sorella Frida e del cognato. Per
evitarvi lo “spoiling”, cioè l’anticipazione del finale, diciamo solo che Herbert
George Wells si è ispirato a questo romanzo per il suo celeberrimo “La macchina del tempo”, uscito nello
stesso anno, il 1895, e cita proprio Allen. Il tema del “mondo perduto”, o dei
viaggi nel tempo, era molto in voga all’epoca, ricordiamo anche “Un americano alla corte di re Artù” di
Mark Twain, del 1889.
Bertram
Ingledew considera i costumi inglesi come quelli di una qualsiasi
società primitiva, si comporta da antropologo, analizzando con distacco scientifico (ma anche
con un pizzico di disgusto) l’ossessione per l’onorabilità, misero feticcio, e
per le regole della buona società, opprimente tabu.
Allen
mette a fuoco le incongruenze di una società che basa tutto sulla reputazione,
nascondendo il marcio sotto il tappeto. Vittime di questo sistema etico
sono soprattutto le donne. Da una parte è vietata loro la libera espressione
della propria sensualità, di sentimenti svincolati e puri, dall’altra esse vengono sfruttate
come prostitute, costrette ad una vita abietta, a indigenza e malattie, proprio da quegli stessi uomini che le usano
per mantenere illibate (e represse) le loro future mogli. Verso la
prostituzione, e il suo utilizzo da parte di borghesi e nobili votati al culto
del “buon costume”, Allen mostra una vera e propria idiosincrasia.
Sia
in “The Woman Who Did” che in “Questi barbari inglesi” non c’è lieto
fine, perché la spinta libertaria - ed il ribaltamento dell’etica a favore di emozioni
cristalline, della ventata fresca che si respira solo dalla “sommità della collina”
- comporta conseguenze tragiche, somiglianti, anche solo inconsciamente, ad una
punizione. La società non è pronta per accogliere un nuovo concetto di morale, per
scambiare l’aria viziata e malsana dei salotti bene con passioni che sono etiche
solo in virtù della loro autenticità.
Il
romanzo, o meglio il racconto lungo, è scorrevole e anche divertente. Spassoso il
modo in cui sono descritti gli inglesi, con quel loro sentirsi centro indiscusso
dell’universo e non concepire nemmeno l’esistenza di luoghi e culture alternative.
Si notano, però, dei difetti nel testo che, forse, l’hanno reso poco celebre, insieme
al fatto di essere antibritannico e propalare idee non convenzionali e trasgressive.
Risente del fatto di essere più un saggio che una narrazione vera e propria ed
ha una costruzione lacunosa. La prima parte si presenta come satira sociale, la
seconda vira verso il dramma, sempre intriso, però, di teorie filosofiche. Il personaggio
di Philip Christy, ad esempio, che serve a introdurre in modo comico, per
contrasto, la figura di Bertram Ingledew - incarnando a tutti gli effetti i
pregiudizi vittoriani e l’autocompiacimento inglese - sparisce quasi dalla metà
del libro ed è sostituito dall’odioso marito di Frida. In realtà i due cognati,
ottusi e gretti, fanno da contraltare alle figure di Bertram e Frida, lui
limpido nella sua saggezza quasi sovrumana, lei intelligente, viva, pronta a
recepire i nuovi concetti, a svilupparsi intellettualmente e spiritualmente, elevandosi
al di sopra della stolta morale perbenista. Quello che succede a Frida è
proprio quello che l’autore vorrebbe accadesse a tutte le giovani donne dopo la
lettura della sua opera. “Soprattutto”,
afferma ancora nella prefazione, “si
dovrebbe suscitare il loro vivo interesse quando sono ancora giovani e
plasmabili, prima che si siano cristallizzate e indurite nelle convenzionali
marionette della buona società. Farle pensare quando sono ancora giovani, far
loro provare sentimenti quando sono ancora sensibili.”
Una
molto godibile via di mezzo, insomma, fra ragione e sentimento, “sense and sensibility”,
illuminismo e romanticismo, libello e romanzo d’amore.
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