Erich Maria Remarque
Mondadori 2013
pp. 252
Nel programma della quinta classe di Liceo, un bravo professore di storia consiglia di leggere Niente di nuovo sul fronte Occidentale di E. M. Remarque.
Il suggerimento viene ovviamente dalla congiunzione del tema del romanzo con il programma scolastico: la prima Guerra Mondiale.
Da pochi giorni i quotidiani hanno riportato la notizia delle celebrazioni dei cent'anni dall'inizio dello scoppio del primo grande conflitto mondiale. Un anniversario infausto se si considera cosa l'attualità ci riferisce circa lo scacchiere politico internazionale.
Alla fine ho fatto una scelta. Quando ero al liceo nessuno mi aveva consigliato questo libro. Da solo lo avevo tolto dallo scaffale della piccola biblioteca "sgarrupata" della mia scuola nella periferia di Roma. Avevo cominciato a leggerlo, ma gli anni non erano quelli adatti. Chiusi il libro e ne rimandai la lettura. Con questo anniversario il tempo è arrivato. Sembrava un libretto da leggere in pochi giorni, ed in realtà per numero di capitoli e capacità di scrittura dell'autore, questo sarebbe stato ragionevole e possibile. Ci ho messo un po' più perché il contenuto è assai impegnativo.
Copertina della prima edizione del romanzo, 1929 |
Un gruppo di raggazzi, spinti dalla retorica, si presentano per andare al fronte. Dopo le pennellate vivide che descrivono tutti i compagni di una classe arruolata e dei primi duri tempi in caserma, si passa ai racconti dal fronte.
Morte, desolazione, pericolo, stenti e quant'altro sono la triste realtà che l'autore, dopo averla vissuta in prima persona, racconta al mondo di allora (il romanzo esce nel 1929).
Troppo drammatico per definirlo solo bello, perché si parla di guerra ed in essa non trovo nulla di affasciannte. Nel racconto sì.
La voce narrante, Paolo Baumer di vent'anni, conduce gradualmente negli orrori della trincea, in quel nuovo Stato in cui sono in vigore regole differenti, forse nell'aspetto ciniche perché orientate a salvaguardare la propria esistenza. Ciò che più colpisce nei pensieri di Paolo, oltre la devastazione che la guerra è in sé,
soprattutto agli occhi di un giovane, è che essa porta via tutto,
anche la vita interiore.
I sentimenti reggono, il cameratismo obbligato; le amicizie che rimangono sono l'ultima certezza prima della fine.
Ci eravamo arruolati pieni di entusiasmo e di buona volontà: si fece di tutto per spegnere in noi l'uno e l'altra. (p. 69)Più volte ritorna nel libro questo aspetto. Prima la cultura imparata sui banchi di scuola appare inutile chiacchiericcio, poi le convenzioni e anche i valori insignificanti di una società che manda in trincea gli alunni di una classe, il proprio futuro, le proprie speranze.
I sentimenti reggono, il cameratismo obbligato; le amicizie che rimangono sono l'ultima certezza prima della fine.
Poi il protagonista/voce narrante di fronte alla morte che lui ha procurato, "perché è la guerra", a piccoli passi si riappropria del desiderio di vivere e di tutto quello che sta alla base delle cose insegnate a scuola, scritte nei libri, e pronunciate da chi la guerra non la vive.
Il romanzo appartiene ad un periodo storico in cui l'io ha subito diverse devastazioni, in cui l'individualismo ha cominiciato ad affacciarsi sulla scena culturale e sociale. In una società fatta di figli e figlie di Kant, riemerge nel soggetto immerso nel dolore la percezione di un umanesimo che non si annienta, di quella dignità della persona che se anche gravemente messa in discussione non sparisce, dell'importanza che ha per sé l'individuo, in quanto persona. Paolo allora capisce che il nemico, l'altro, è un par suo, che moglie, madre e figli soffrono allo stesso modo da una parte e dall'altra delle barricate, arrivando così a riconoscere la verità principale, ovvero che sotto la giubba o la divisa non c'è solo il nemico, ma c'è il fratello, un essere umano, pensante e dolorante come me. Ed infine, nel periodo di degenza in ospedale, l'amara conclusione:
E un calore straordinario mi fluisce ad un tratto nelle vene. Quelle voci, quelle poche parole sommesse, quei passi nella trincea mi strappano di colpo all'orribile isolamento, all'angoscia mortale alla quale stavo per cedere. Sono più che la mia vita, quelle voci: sono più che l'amore e l'ansia materna; sono la cosa più fortificante e protettrice che vi sia: sono le voci dei miei compagni.
Non sono più un brandello tremante di vita, solo nelle tenebre: appartengo ad essi, ed essi a me, abbiamo tutti lo stesso terrore e la stessa vita, siamo legati fra noi in un modo semplice e solenne. Vorrei affondare il mio viso in quelle voci, in quelle poche parole che mi hanno salvato e che d'ora innanzi mi assisteranno. (p. 165)
Il romanzo appartiene ad un periodo storico in cui l'io ha subito diverse devastazioni, in cui l'individualismo ha cominiciato ad affacciarsi sulla scena culturale e sociale. In una società fatta di figli e figlie di Kant, riemerge nel soggetto immerso nel dolore la percezione di un umanesimo che non si annienta, di quella dignità della persona che se anche gravemente messa in discussione non sparisce, dell'importanza che ha per sé l'individuo, in quanto persona. Paolo allora capisce che il nemico, l'altro, è un par suo, che moglie, madre e figli soffrono allo stesso modo da una parte e dall'altra delle barricate, arrivando così a riconoscere la verità principale, ovvero che sotto la giubba o la divisa non c'è solo il nemico, ma c'è il fratello, un essere umano, pensante e dolorante come me. Ed infine, nel periodo di degenza in ospedale, l'amara conclusione:
Come appare assurdo tutto quanto è stato in ogni tempo scritto, fatto, pensato, se una cosa simile è ancora possibile. Dev'essere tutto menzognero e inconsistente, se migliaia di anni di civiltà non sono nemmeno riusciti ad evitare che questi fiumi di sangue scorrano, che queste prigioni di tortura esistano a migliaia. Soltanto l'ospedale mostra che cos'è la guerra. (p. 203)
La lettura non si ferma alle pagine e spinge a riflettere seriamente sul valore della vita, dell'amicizia, dell'eroismo vero che spinge a farsi carico dell'altro in silenzio per salvarlo. Se ricordiamo quelle frasi, che ormai circolano con abbondanza, per cui esistono libri "che ti cambiano la vita", il romanzo di Remarque rientra a pieno titolo nella categoria perché il testo è scritto bene, ma ciò che l'Autore esprime
inchioda, abbatte e mette di fronte all'amore per l'esistenza e all'assurdità della guerra come macchina di morte, cosa
che a detta di Paolo, l'uomo dopo millenni non capisce.
Tornando al "professore" dell'esordio, ritengo, dopo tanti anni dalla fine della mia scuola, che proporre questo libro in lettura agli adolescenti sia un consiglio adatto, confacente ed anche per certi versi auspicabile. Non si augura certo alle nuove generazioni di vivere quello che i coetanei di Remarque e Paul Baumer hanno vissuto, ma ci si augura, per ogni lettore, che accostando queste pagine si possa acquisire uno sguardo differente, più critico e realista sul cosmo che ci circonda, sulle scelte internazionali, sull'uomo e la donna che ci stanno a fianco.
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