TERRA MIA
All’alba
mi vesto del tuo odore
e mentre le stelle sfuggono
al giorno
mi sveglio sotto la tua
ombra
abbracciando il mistero del
tuo calore.
Offrendomi alle tue mani
Cammino sui tuoi polmoni
Divoro il vento per volare
nei tuoi occhi
A cantare il tuo dolce
profumo di cachi.
All’alba
estraggo l’inchiostro dei
tuoi spiriti
dall’albero magico, scolpisco
la penna
per pitturare la tua anima
e la mia voce innocente
intona i tuoi canti.
All’alba
Una voce ti diceva:
terra senza voci
voci che non sanno scavare
il pozzo delle melodie
melodie che non rimano con
le parole
parole senza profumo,
questa terra non sa
piantare le lettere,
parole stonate
suoni senza fiamme:
fiamma, fumo e solo
tenebre.
Terra che non sa contare
conto che ripudia
l’aritmetica
racconto che non brilla. (da “Ode Nascente”, 2009)
Il
senegalese Cheikh Tidiane Gaye non vuole essere etichettato come poeta della
migrazione. Noi lo definiremmo piuttosto poeta borderline fra decolonizzazione
e integrazione, fra passato e futuro. Forse è proprio il presente a stargli
stretto.
Nato
in Senegal nel 1971, ha pubblicato testi in prosa e poesia, fra i quali “Il giuramento”, “Mery principessa albina”, “Il
canto del Djali”, “Curve alfabetiche”,
“Rime abbracciate”, “Ode nascente”, “Prendi quello che vuoi ma lasciami la mia pelle nera.” Dichiaratamente
s’ispira a Leopold Sèdar Senghor, primo presidente del Senegal e poeta di
lingua francese, il quale, insieme all’antillano Aimè Cesaire, fu l’ideologo
della negritude. Per negritudine s’intende la riscoperta
della cultura africana, delle sue caratteristiche peculiari, come il senso del
ritmo e la forza del sentimento. Il popolo nero va alla ricerca di sé, delle
proprie radici, della propria specificità, all’indomani della diaspora che l’ha
reso apolide, ramingo o non bene adattato.
“I cuori, le mani, i piedi battono,
battano tutti i piedi, le
mani, i cuori
il sorriso degli uomini che
accoglie la vera parola,
parola partorita nel dolore
parola che si radica nel
cemento del nostro essere,
parola esaltata
dall’euforia,
parola scolpita nella
corteccia dei baobab millenari,
parola dalle auroree
lettere tagliata al tramonto delle lacrime,
parola che sorride:
negritudine.”
Ma
in Tidiane Gaye quest’unicità viene proiettata nel futuro e usata come ponte
per la creazione di una nuova società sincretica che, alla base, ha solo i
principi dell’umanità e dell’universalismo. Come fa notare Adriana Pedicini, Tidiane
Gaye è un umanista, mette l’uomo e la sua parola all’interno di un cerchio
vitruviano, considera l’interculturalità un potente mezzo d’integrazione,
arricchimento e superamento delle barriere. Alla base di tutto c’è la lingua
italiana, usata come strumento unificatore che si auto rigenera in qualcosa di
nuovo, a prescindere da tutte le conoscenze stratificate nei secoli, e si
evolve, arricchendosi di espressioni provenienti da altre culture e altre
esperienze. Questo può piacere o non
piacere – può anche stupirci che Tidiane Gaye ammetta di non conoscere
Pinocchio o scriva Ungheretti al posto di Ungaretti – ma è comunque espressione
di un moderno movimento interculturale, frutto di esportazione e di
globalizzazione, al quale dobbiamo abituarci e che non possiamo più ignorare.
Tramite
questa fusione, questo melting pot di
culture e lingue, si giunge, secondo la visione ottimistica e piena di speranza
di Tidiane Gaye, all’incontro con l’alterità, alla comprensione dell’altro da
sé, alla fratellanza autentica, all’amore.
Di
questo compito quasi messianico si fa carico il vate, lui stesso, che,
dichiarando “non sono poeta” e “non sono profeta”, in realtà assume
entrambe i ruoli. Sarà lui, in qualità di traghettatore, di bardo, di aedo o,
meglio, di djali, a farsi carico di questo compito luminoso: unire
tramite la parola poetica i cuori degli uomini, fino a portarli in quel luogo
dove le differenze sono valore e non scontro. Insomma, nel luogo sacro della fraternità.
NON SONO POETA
Lascio presto in mattinata
la mia casa di paglia
i miei sandali, cuoio di
capra
proseguo il vento, le corde
invisibili
nei meandri delle sonorità
plurali
canto il mio villaggio, la
terra dei miei avi.
Quando canto, è pane che
offro
all’orecchio che mi ascolta
alla lingua che mi applaude
e alle mani
che mi parlano e mi lodano.
Non sono poeta
il mio alessandrino è
orfano di emistichi
la mia prosa, erba secca
per illuminare le notti senza nomi
oscure e curiose.
Non sono poeta
quando canto le mie parole
penetrano i cuori,
indovino le parole nei
cespugli
sorgenti dei miei fertili
pensieri
che procurano latte e
formaggio.
Taglio le mie sillabe nel
fuoco della purezza,
sono l’angelo delle
maschere, invisibile la notte
nelle tenebre delle parole
che tracciano i gloriosi
canti dei guerrieri.
Non sono poeta,
lo sarò. (Da Il canto del Djali, 2007)
Gaye
canta l’Africa, intesa come continente e non come singolo paese di provenienza.
Più volte, infatti, afferma di voler eliminare i confini, mere convenzioni
tracciate a tavolino. La sua Africa è tutto ciò che sta a sud del Sahara, dal quale,
tuttavia, spira un vento che brucia e soffoca ma anche accarezza e perdona. L’Africa
è odore, sapore, densità, colore acceso. È cose terrene e tangibili - e sono le parti più belle, le poesie più
vibranti – come il miglio, il baobab, la
kora, strumento musicale fatto di zucca e pelle. “Nel mio paese il sangue dei leoni inonda i pozzi/ la bravura delle donne
si misura nella larghezza delle loro mani”.
LA MIA AFRICA
Mi sdraierò sul tuo petto
e nelle tue braccia fresche
abbracciami,
mi darai il tuo pane e il
tuo riso
basterà a me solamente la
tua bellezza nera
quando a mezzogiorno
la luce brillante della tua
pelle
coprirà la mia ansia
offrendomi l’ombra,
dolcezza del tuo sorriso
canto fresco;
luna dei miei sogni
cantami e coccola la mia
anima.
Impediscimi tutto
il tuo vento del Sahara
la tua spiaggia morbida
come fragola
impediscimi tutto
ma non i tamburi sulla
chiara luna
quando ascoltando l’uomo
dalla barba bianca,
illuminando i sorrisi
spenti
nella caduta delle lingue
deboli,
sarò la voce imprendibile
la bocca sonora di una
terra
dove la speranza cade
come gradine.
Mi sdraierò sotto i tuoi
piedi
non mi basterà il tuo
sguardo;
alzami con le tue lunghe
fresche braccia
ospitami nella tua tana,
nido umido;
all’alba sorrideremo al
mondo
perché questa terra è
sempre in piedi. (Da
Canto del Djali, 2007)
L’Africa,
in questo caso, è edenico rimpianto, madre accogliente pensata con struggente nostalgia. Ma l’Africa
è anche navi negriere cariche di schiavi, è barconi che sfidano le onde nel
buio, centri di accoglienza pieni di facce attonite, è l’isola di Lampedusa
implorata, invocata, pregata.
La
terra di cui parla Tidiane Gaye non è solo la sua di provenienza ma, per
estensione, anche tutte le nazioni che soffrono come la sua ha sofferto, in
primo luogo la martoriata Palestina. Dove c’è un popolo sperso che soffre, là c’è
la patria di Tidiane Gaye e, tramite la sua poesia, tramite la lingua che
affratella, viene offerta la possibilità
di risanare le ferite, far scaturire l’amore, unire il passato al presente
costruendo il futuro, ricollegare i vivi ai morti. “Accosterà la tolleranza alla mia spiaggia”.
Ma l’Africa è anche donne meravigliose, esaltate
con accenti da Cantico di Salomone, donne amate e madri, sacre come donai nella loro terrestre fisicità,
sineddoche di tutta una terra.
RAMATA
Il tuo nome è linfa
nutriente
i tuoi piedi, recinto dei
tuoi versi
il tuo corpo una vita
le tue strofe riempiono i
calici
e inondano i laghi della
bellezza
il tuo corpo svelto
è l’ospite delle mie notti,
la luna si nasconde
per offrirmi il calore
della tua pelle
specchio della tua memoria,
riflesso della tua lingua.
Il tuo corpo è una sinfonia
una sillaba, una casa,
il tuo corpo è labbra
la forma della tua bocca un
bacio
la tua fronte liscia e
libera,
i tuoi denti bianchi
si nutrono del sorriso del
sole
nella vela dei venti
e nella notte delle lune
la tua bocca è ode e lirica
le tue treccine, pittura e
poesia
la tua andatura, il cammino
epico del tuo popolo. (Da
Ode Nascente , 2009)
A MIA MADRE
Non ti ho perduta, ti
sognavo
la tua ombra, mia custode,
salvatrice dei miei passi
tu mi dicevi: dormi vicino
al mio cuore allattato dal mio seno.
La tua saggezza è
tramandata
sono cresciuto per vincere
le paure degli uomini.
Mi ricordo, tu mi portavi
sulla schiena morbida
frullando le spighe di
miglio
sono cresciuto per
coltivare la forza degli uomini.
Tu, madre mia, cantante
mia, cantavi la notte per addormentarmi
sono cresciuto per salvarti
dall’incubo.
Tu, mia maestra, mi hai
insegnato le prime lettere dell’alfabeto
sono cresciuto per
insegnare la lingua all’uomo.
Madre, sei il mio custode
invulnerabile alle grida delle iene
avvicinati e non
abbandonarmi
la vita ha spaccato il
cordone ombelicale
ma il cuore è unito a te
per sempre.
Il prezzo della sofferenza
è sorridere al mattino
ascoltare la tua voce
fuggire dalle tue paure,
ti canto quando il sole si
allontana dalle nuvole
quando la luna si risveglia
la notte, quando le stelle
ballano
ballerò sulla punta dei
piedi
dai miei occhi ti guarderò,
ti dirò di perdonarmi
e ti ringrazierò di avermi
partorito.
Ecco mia madre nel sogno
che mi rispondeva col
sorriso sulle labbra:
Figlio mio, adora tua madre
e tuo padre
sono per te lo specchio. (Da Canto del Djali, 2007)
Sempre
Adriana Pedicini fa notare il sincretismo linguistico, l’uso di neologismi e i
richiami alla lingua wolof, e noi
aggiungiamo il contrasto fra parole ricorrenti, come onde che si accavallano di
continuo, tornando a riproporsi senza mai essere le stesse: ad esempio miele e
vipera. Il miele è connesso alle origini, alla terra, alla lingua, la vipera è
ciò che fa male, inganna, sfrutta, deporta.
Difficile
giudicare la poesia di Tidiane Gaye col nostro metro perché essa ha i ritmi,
gli enjambement, gli accenti della produzione del suo paese. La prosodia ci
mostra un verso elastico, a volte stretto, a volte allungato fino a riempire
tutto il foglio e assumere i connotati della prosa. La parola è mezzo espressivo
ma anche fine, ha valore conoscitivo, scopre il senso segreto delle cose. Il Verbo
crea, ha potere sulla materia e sullo spirito, la parola del griot, del cantore, dà vita alla nuova
religione che ha al centro l’uomo, il nuovo umanesimo che risarcisce e
rimargina.
TAM-TAM
Le mani affogate nell’acqua
salata
mi inchino davanti
all’albero e recito i versi del nonno.
E dirò:
Spirito, taglia questo
legno nella purezza del latte
i suoni del vento, delle
onde del mare,
medito sulla voce
invisibile del cuore
accompagno la voce dei
griot,
la lingua dei saltigue
diventi la memoria del cammello
precipiti durante la morte
del re
la nascita del bambino
e... lentamente la gioia
del popolo.
Tam-tam
nella tua pelle di sale
m’inchino davanti
all’albero e recito i versi del nonno.
E dirò:
Voglio sentire i tuoi ritmi
per adorare il fiore rosa
aprire gli occhi del cielo
ballando con le belle perle
nelle serate d’estate sotto
la piena luna
voglio sentire il ricordo
della notte stellata
alle grida mute delle iene
e dei leopardi
il verbo che dice “Bevi la
parola per illuminare il cuore”
la pianta che fiorisce
la montagna che crolla
la collina che si inchina
i laghi che svuotano il
ventre del coccodrillo.
(Da Il canto del Djali , 2007)Cheikh Tidiane Gaye italiano di adozione nasce in Senegal. Poeta e scrittore, è membro di Pen Club Internazionale Lugano Retoromancia Svizzera. È il primo africano a tradurre Senghor in italiano. Ha ottenuto significativi riconoscimenti letterari ed è presente sulla scena culturale italiana attraverso interventi, letture e performance poetiche che testimoniano una coerente partecipazione alla vita del suo nuovo paese. La scrittura è sempre stata la sua passione più o meno segreta, sbocciata in ambiente e lingua italiani con il libro Il giuramento (Liberodiscrivere editore, 2001), seguito da Méry principessa albina (2005), Il canto del djali (2007), Ode nascente/ ode naissante (2009) pubblicati dalle edizioni dell’Arco, Curve alfabetiche (Montedit Edizione,2011), Rime abbracciate – L’étreinte des rimes ( L’Harmattan Parigi, 2012), Prendi quello che vuoi, ma lasciami la mia pelle nera (Jaca Book, 2013). Nel 2014 traduce e pubblica l’antologia: Senghor: il cantore della negritudine ( edizione dell’arco, 2014). Vive in Brianza ad Arcore.
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