di Eugenio Baroncelli
Sellerio, 2014
pp. 115
Fate attenzione a questo piccolo scrigno di “cento romanzi di cento parole”. Fate attenzione perché Eugenio Baroncelli viene direttamente dall’OuLiPo di Raymond Queneau e François Le Lionnais, il laboratorio di letteratura potenziale che indagò nuove strutture, anche di natura matematica, a servizio del romanzo. Probabilmente però, se glielo chiedete, vi guarderà in maniera interrogativa, magari negando tutto. Lo dico perché subito dopo avere letto questi suoi romanzi avari, mi è capitato di incontrarlo e di scambiarci qualche impressione.
Intanto mi ha fatto capire che il libro andrebbe tagliuzzato in tante parti quanti sono i romanzi, dunque 100, per ottenere una fila di documenti originali dove le 100 parole non riempirebbero che una minima parte, in alto, di un documento word. Cominciate a visualizzare questi fogli uno dietro l’altro, oppure uno davanti all’altro, e vi accorgerete che dinanzi a voi si manifesta un menabò asiatico: «un rotolo di Wang li, un fotogramma di Ozu, una veduta di Hokusai».
Confesso che dei tre conosco, a malapena, Yasujirō Ozu, il regista. Ebbene, contaminati dalle cadenze hollywoodiane, non possiamo che giudicare lenti i suoi film. Senza ritmo. Perché abbiamo una coppia di genitori che mangiano, parlano insistentemente della figlia, poi… ci aspettiamo che la figlia faccia la sua apparizione nello schermo. Invece nulla: la cinepresa continua a inquadrare questo uomo e questa donna per interminabili minuti. Peraltro all’improvviso silenziosi perché hanno pure terminato di dibattere sull’argomento.
«Non è che siamo in presenza di assenza di ritmo – dice Baroncelli – anzi, Ozu ci sta proponendo il ritmo più drammatico di tutti: il ritmo della vita. Così se guardi i 100 romanzi in forma di file, prima di essere incasellati dalle esigenze editoriali in un libro, avrai una parte nera in alto molto minore della parte bianca rimasta vuota. La parte nera sono i due genitori del film che si confrontano, la parte bianca sono le scene di attesa. Dunque: è meno il pieno che il lettore può compiangere del vuoto che può riempire». Riempire di cosa? È sempre Baroncelli a chiarirlo nell’epilogo: «dei romanzi suoi o del perfetto silenzio».
Questi 100 romanzi, che possono richiamare Borges o Calvino, ma non glielo dite, offrono una scrittura densa nella concisione. Mostrano, e qui Baroncelli mi perdonerà ma non posso non rievocare la rapidità delle “Lezioni Americane”, una grande capacità di imprimere nel lettore elementi, soggetti, passaggi, biografie memorabili. Ciascuno a modo suo. Evidentemente si può arrivare a scalfire, anche con una scrittura magra, la predisposizione generale che è sempre meglio occuparsi delle regole che non delle eccezioni. Qui è il contrario. Un libro patafisico? Può essere. Ma non glielo dite. «Mi piacciono le sfumature d’altronde, il punto e virgola ad esempio, che è diventato una razza in via di estinzione. Il punto e virgola è la pausa fondamentale, più di una virgola ma meno di un punto». Occorrerà esercitarsi: è anche un buon lettore a fare un buon libro.
«Sono un pessimo matematico eppure mi sono dato un limite: le 100 parole. Se volete, i limiti li infrangiamo, aiutandoci con gli anagrammi: “Gli incantevoli scarti” diventa “Scritti vicino al lagno”. “Cento” può diventare “conte”. Ma non il conte, titolo nobiliare. Troppo facile. “Conte” in francese, che vuol dire: racconto. “Parole” diventa “l’opera”, quasi il suo contrario, perché il parlare ha sempre fatto un po’ a pugni con l’agire. Da “parole” ottengo “Aperol”, riproponendo così la diatriba sullo spritz: seguendo la scuola milanese non potremo che puntare sul Campari suscitando le ire della scuola veneziana che privilegia l’aperitivo arancione».
Anche lo spritz, in ogni caso, è una formula che necessita di limiti: se non altro quelli dei bicchieri. Tuttavia, nonostante questa gabbia di vetro, per estensione gabbia formale, letteraria o matematica, lo trovo buonissimo. «Georges Perec ha scritto un giallo di 200 pagine circa, “La Disparition ”, ovvero “La scomparsa”. È scomparso un tale, come nei migliori romanzi di genere, ma è scomparsa anche una lettera. E non una lettera qualsiasi: la “E”, che in francese è quella più utilizzata. Mentre Perec non la usa mai. Il suo si definisce un lipogramma. Ma non è l’unico modo di accostarsi alla scrittura. Si narra nella “Storia molto lacunosa di Felisberto Hernandez” che questo scrittore uruguaiano si rifiutava di scrivere i finali, lasciando incompleti i suoi racconti che finivano come in un buco. Abbiamo poi lo svizzero Robert Walser che, a detta del catalano Enrique Vila-Matas, respira solo con una prosa che passeggia, amica giurata del vagabondare. Pare che gli sia servito a smascherare corrosivamente l’osannata operazione di scrivere».
Marco Caneschi
Marco Caneschi