Ringraziamo Sara Bauducco (visitate il suo blog!) che, dopo aver incontrato Sergio Garufi a #TreQuarti14 a Pavia, ha intervistato in esclusiva l'autore per noi!
Sara Bauducco e Sergio Garufi alla Libreria CLU con #TreQuarti14 Foto ©GMGhioni |
Sergio Garufi (1963), già autore di Il nome giusto edito da Ponte alle
Grazie nel 2011, è uscito quest’anno con un nuovo romanzo che sta riscuotendo
consensi da parte di lettori e critica: Il
superlativo di amare, sempre per la stessa casa editrice. Il titolo
contiene - non a caso - un gioco linguistico che riassume il dizionario
interiore e la vita del protagonista Gino, traduttore cinquantenne che altalena
tra collaborazioni precarie e ricerca la pienezza di una relazione affettiva
stabile, e degli altri personaggi grazie ai quali si declinano anche amicizia,
attenzione e affetto. Ho avuto il piacere di presentare lo scrittore al
festival TreQuarti di weekend a Pavia, sabato 11 ottobre ed ecco ora l’intervista.
Come è
nato Il superlativo di amare? Quale è
stata la scintilla che ha dato il via alla narrazione?
È nato tutto da una frase, che era presente già nel
mio primo romanzo, e che in quest’ultimo ho utilizzato come esergo. La frase è:
“che tutti i tuoi desideri si possano realizzare”, ed è un’antica maledizione
gitana. Mi ha sempre colpito perché è precisamente il testo più comune degli
sms che ricevo per gli auguri a Natale. Da noi è un auspicio, per i gitani una
maledizione. Da questa frase mi è venuta voglia di raccontare la storia di un
uomo che “ce la fa”, che riesce a realizzare i propri sogni, e di quanto salato
sarà poi il conto da pagare.
Nel
romanzo tratteggi diverse sfumature dell’amore, da quello più romantico a
quello più passionale e persino disincantato. Cosa rappresenta per te l’amore e
come lo definiresti?
Foto ©GMGhioni |
Nel romanzo metto in scena diversi modi di
intendere l’amore, ma i due principali sono quelli di Gino, il protagonista, e
di Martino, il suo migliore amico. Per certi versi queste due concezioni quasi
opposte ricalcano il modello dialettico degli Asolani di Pietro Bembo. Gino è un sentimentale. Pur essendo single
da molti anni e portando avanti un surrogato di amore, rappresentato dalla
relazione adulterina con una donna sposata che incontra saltuariamente, lui
continua a crederci, a pensare che l’amore sia il motore del mondo, l’amor che move il sole e l’altre stelle.
E in un certo senso fa bene a crederlo, perché proprio l’incontro con una donna
di nome Stella imprimerà alla sua vita monotona e grigia una svolta decisiva.
Martino è un po’ il suo contraltare, un dongiovanni, un cinico sciupafemmine
che considera la passione anzitutto un patire, una sofferenza, qualcosa da
temere perché ti rimette in discussione, sconvolge ogni equilibrio. Da che
parte sto io non saprei dire. Dipende dai momenti. Cercare un autore nei suoi
personaggi è come cercare l’amido nel pane: sta dappertutto. Per molti versi la
penso come Gino, e quello che è capitato a lui è capitato anche a me. Se oggi
faccio quello che ho sempre sognato, e cioè scrivere di professione, lo devo a
una donna, la mia fidanzata, che mi ha incoraggiato e sostenuto in ogni modo,
ma allo stesso tempo non mi nascondo che la costruzione di un amore è
un’impresa ardua, roba da spezzare le vene, come dice una bella canzone.
Il viaggio,
geografico o simbolico come percorso interiore di ricerca e autoaffermazione, è
un altro tema ricorrente. Uno scrittore viaggia con i suoi personaggi? Come hai
vissuto le vicende dei tuoi e quali ti hanno segnato durante la fase di
scrittura?
Il protagonista di Il superlativo di amare è un uomo sedentario, un casalingo, che si
limita a sognare dei viaggi guardando i posti su Google Earth, e tuttavia la
vita lo porta lo stesso a muoversi. Tornando nel paese natale in Umbria per i
problemi di salute della madre, accompagnando la sua donna a Bruxelles, e
infine a Parigi, la meta dei suoi desideri e la città dove visse per molti anni
il suo beniamino letterario, lo scrittore argentino Julio Cortazar. Pur non
credendo alla retorica della “crescita”, secondo la quale da ogni viaggio si
torna diversi, Gino resterà segnato da tutti questi spostamenti, a volte non in
positivo. I viaggi di Gino sono stati anche miei, nel senso che io non sono
capace di descrivere qualcosa che non ho visto, e poi perché le sue passioni
sono anche le mie (le case degli scrittori per esempio, o il concepire Parigi
come una sorta di Gardaland letteraria). Quanto e in che misura mi abbiano
“segnato” non saprei dire.
Foto ©GMGhioni |
La
letteratura può essere considerata un personaggio del tuo romanzo dato che
gioca un ruolo importante attraverso il lavoro di traduttore del protagonista
Gino. Allo stesso modo nella prima parte della narrazione ci si imbatte con
frequenza nello spirito e nelle avventure di Cortàzar. Con quale libro ti sei
innamorato della lettura e a chi lo consiglieresti in particolare?
La letteratura per me è una lente attraverso la
quale guardo il mondo. Spesso questa lente è deformante, ingigantisce ciò che è
piccolo o mette a fuoco solo alcuni dettagli. All’inizio ho provato a scrivere
qualcosa che non avesse nulla a che fare coi libri, ma ormai mi son rassegnato
al fatto che la letteratura fa parte del mio DNA, e che è inutile ribellarsi
alla propria natura. Io sono così perché ho avuto quell’imprinting, guardando
mio padre assorto nella lettura durante tanti weekend oziosi. I primi libri che
ricordo e che colpirono la mia immaginazione furono un’Iliade a fumetti ed
Ettore Fieramosca, l’epica di cui si nutre ogni bambino, anche se molti di
quelli di oggi magari la trovano altrove, in un film o in un videogioco.
La tua
narrazione è molto realista, concreta e colorata; lo stile sciolto ma ricco di
dettagli. Come sei approdato alla scrittura e quali sono i tuoi progetti
futuri?
Ho iniziato a scrivere molto tardi, dopo i
trent’anni, e sempre recensioni o piccoli saggi. Ero certo di non possedere una
fantasia di primo grado, ma di poter scrivere solo su altri libri. In un certo
senso non mi sbagliavo, perché anche quando mi son cimentato con la narrativa
alla fine ho prodotto degli ibridi che si appoggiano ad altri libri, o che
usano altri libri come basso continuo. Ora mi piacerebbe tornare alla
saggistica, che considero meno faticosa, ma cambio idea talmente velocemente
che non ci metterei la mano sul fuoco.
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