L'utopia
come sguardo sul mondo, come modo di essere, forma e traccia della
speranza. Ma utopia intesa anche come molteplicità di lingue, rotte e ipotesi che
ciascuno si porta dentro, viaggiando su linee immaginarie tracciate su mappe
imprecise e diverse, verso luoghi ipotetici ma sempre possibili se solo si
ha il coraggio di immaginarli.
Il volume
"Atlante immaginario" (Marsilio) scritto da Giuseppe Lupo - docente
di letteratura italiana contemporanea presso l'Università Cattolica del Sacro
Cuore di Milano e di Brescia nonché editorialista del «Sole 24 Ore della Domenica» - è una raccolta
di articoli e riflessioni sull'altrove - sull'utopia - che sempre ci circonda, nos non sentientes. Un altrove
caleidoscopico fatto di storie e vite che si ritrova e ritorna in quasi tutti i
romanzi di Giuseppe Lupo (L'Americano di Celenne, Ballo ad Agropinto, La
carovana Zanardelli, L'ultima sposa di Palmira e Viaggiatori di nuvole),
scrittore con la capacità di suggerire ai propri lettori la possibilità di
compiere quel passo in più verso uno sguardo creativo sul mondo. A ciascuno -
pare essere questa la sintesi estrema delle tante brevi riflessioni contenute
nel volume - è data ed è riservata un'utopia personale, fatta di un altrove
colorato e vivo, un campo fiorito dove scorazzare, tracciando mappe e confini
diversi, storie e "carovane". E la testimonianza è l'autore stesso e
il suo sguardo sul mondo.
Dalle
periferie alle fabbriche che oggi "generano" poesia, passando per le
mappe imprecise di editori accorti o per applicazioni e navigatori
fortunatamente indecisi su quale percorso farci intraprendere, Lupo rilegge l'altrove
come una possibilità creativa che ci circonda a ogni passo e ci mette in
guardia sul presente. "Questa - scrive - è l'epoca che ha ammazzato la
fantasia. Una letteratura che nascesse dagli occhiali 'a realtà aumentata'
(come i Google Glass) farebbe l'inventario virtuale di ciò che esiste senza
scoprire nulla, ci allontanerebbe dalla capacità di immaginare mondi e prima o poi finirebbe per esaurire la
forza, avendo più volte fatto il verso a se stessa". Ed è per questo che -
in opposizione alla pervasiva "normalità tecnologica" in cui siamo
immersi - Lupo suggerisce luoghi e ipotesi capaci di riportarci a quella sana
immaginazione che da sempre contraddistingue l'uomo ma rischia oggi di essere
annichilita dall'esattezza che si pretende in ogni esperienza. Ed è per questo
che Giuseppe Lupo la sera - mentre il resto della famiglia dorme - a volte siede
su quella "poltrona volante" al centro del soggiorno, una
"zattera" immaginaria capace di riportarlo "ai luoghi dove è
cominciata la mia avventura di individuo". "Sento - scrive Lupo - gli
stessi odori di pietre e gerani, rivedo i tetti che ho conosciuto da ragazzo in
un altrove lontano quanto un fiato di anni [...] Cammino nel futuro visitando
le case del passato, come se l'infanzia fosse una stagione mai del tutto finita
e anzi le esplorazioni, che mi capita di fare dalla poltrona, continuano a
renderla un viaggio dentro una geografia sospesa fra cielo e terra, una discesa
nella zona più invisibile della mia vita".
***
Critica Letteraria
ha incontrato Giuseppe Lupo, per capire il senso e il destino dell'utopia nei
giorni nostri. Un ingrediente fondamentale che la nostra mente e il quotidiano
non possono trascurare.
Giuseppe, in un mondo
come il nostro, abituato a misurare tutto, a conoscere fin nei minimi
particolari l'anatomia di ogni azione o sentimento, parlare di utopia potrebbe
sembrare ormai fuori tempo massimo, una sorta di fede ingenua. Cosa perdono le
città, i quartieri, le periferie e il singolo individuo senza l'utopia e la
percezione di un altrove possibile?
Il termine utopia oggi non si usa quasi più,
abituati come siamo a pensare sempre alla realtà, ad essere affamati di
concretezza e di certezze. Questo forse perché attribuiamo un significato di
evasione o di fuga all'utopia. In realtà non è così. Utopia per me significa
progetto, costruzione, dunque assume un senso perfino concreto. Il problema è
che, non parlando o non pensado più alle utopie, ci siamo dimenticati del
futuro, contenuto dentro la parola utopia. Senza la capacità di proiettarsi in
un immediato domani, non c'è costruzione del domani. E viviamo in una
dimensione cittadina o familiare che abolisce dal suo vocabolario questo lemma
così importante, dimentica la sua vocazione alla progettualità, scorda perfino
che la Storia è qualcosa da sognare, prima ancora di realizzare.
Se Leonardo vivesse ai
nostri giorni, circondato da iPad, smartphone, socialnetwork e quant'altro,
cosa inventerebbe? Non rischierebbe forse di spendere la parte migliore del suo
tempo su Facebook, nel condividere con i suoi "Amici" questa o quella
idea? In poche parole: la tecnologia sta uccidendo utopie e fantasia?
Teoricamente la tecnologia (che è figlia della
fantasia del mondo di ieri) non dovrebbe ammazzare le utopie, semmai aiutarle nelle
loro edificazione, incentivarle nella loro attuazione. Quasi sempre non accade
questo e gli strumenti di cui siamo circondati svolgono una funzione da
surrogato, diventano un passatempo (per non dire un giocattolo), addormentando
la nostra intelligenza che trova comodo demandare alle macchine ciò che un
tempo era di sua competenza. Se pensiamo che il più stupido dei nostri
cellulari è infinitamente più potente degli elaboratori elettronici che
portarono Armostrong sulla Luna, dovremmo renderci conto di quel che abbiamo in
tasca e maneggiamo con disilvoltura tutti i giorni. Poi sta a noi farci
anestetizzare da questi ritrovati.
Piero Calamandrei, nel
suo "Inventario della casa di campagna" (edizioni Storia e
Letteratura), giunto "a metà del cammin di nostra vita", torna sui
suoi passi, nei luoghi e nelle campagne dell'infanzia, riconoscendo e
ritrovando memorie e sensazioni attraverso l'incontro - quasi fosse un botanico
- con i fiori o con le abitazioni (ormai vuote) che avevano caratterizzato la
sua giovinezza. Il viaggio a ritroso verso i luoghi del tuo passato (e presso i
comò dei nonni) è parte integrante delle riflessioni contenute nell'Atlante.
Esiste un'utopia del ritorno, delle origini e quindi dell'individuo? Un essere
originario e placentale che ci portiamo dentro, come una stilla di perfezione
nel tutto?
Mi piacerebbe credere (e l'ho scritto in questo
libro) che la più antica e solenne delle nostre azioni è quando ci svegliamo e
continuiamo a parlare con la lingua dei sogni: un idioma antelucano, un
vocabolario che ci precede nella fase della razionalità, dopo il risveglio.
Dobbiamo/possiamo pensare che ciascuno di noi è un'avventura unica, si trova al
bivio di ciò che è stato e ciò che sarà. E', insomma, parte di una catena di
informazioni e di memorie non soltanto genetiche, ma di sogni, di speranze, di
progetti, di anima.
Nell'Atlante
immaginario racconti e descrivi le tue due scrivanie: una per i romanzi e
un'altra per le interviste o per gli articoli di taglio professionale. I
personaggi, invece, li "ascolti" mentre ti passano davanti agli occhi
e quasi sgomitano per farsi notare. Eppure, quanto studio è necessario per
arricchire una storia - anche utopica - di riferimenti pseudostorici?
Non ho mai creduto al mito dello scrittore
barbarico e ingenuo. Non esiste scrittura che non affondi nella letteratura di
altri e sarebbe vano pensare che tutto ciò che scriviamo venga pensato per la
prima volta. Anche la fantasia di ciascuno di noi appartiene a una catena di
riferimenti spinti dalle folate di vento, è qualcosa che assomiglia alle spore
in viaggio nell'aria. Se ci pensiamo dentro un sistema di echi e sospiri,
possiamo pensare che tutto quanto ci precede, le pagine degli altri libri, la
scrittura di autori vissuti in epoca che nemmeno riusciamo a concepire, siano
elementi non inutili, non vani. Un po' questo è il sistema delle biblioteche.
In uno dei capitoli di questo Atlante immaginario racconto l'esperienza di un
quadro di Gianfilippo Usellini: La biblioteca magica. Dai libri escono i personaggi
che vi sono stati narrati. Quei personaggi abitano dentro quei libri, leggendo
quei libri vi abitiamo per un po' di tempo anche noi.
Un'ultima domanda,
ancora di laboratorio: quanto silenzio, tranquillità e tempo a disposizione
bisogna conquistarsi per scrivere e intessere la trama di un romanzo? In altre
parole: quanto tempo si ritaglia Giuseppe Lupo all'interno di una giornata per
meditare, immaginare e scrivere?
Come racconto in uno dei capitoli, possiedo due
scrivanie, due computer, due penne. Lavoro a due tavoli: uno per la scrittura
dei giorni feriali, l'altro per la scrittura dei giorni festivi. Quest'ultima
riguarda i romanzi. Mi dedico solo il sabato, giorno per l'appunto festivo, ma
anche negli altri, mentre viaggio in treno o vado al supermercato o cammino per
le strade, continuo a pensare alle storie che ho in mente. E nel frattempo le
storie crescono, crescono fino al sabato successivo. Solo allora arriveranno
sulla carta e occorre creare particolari condiizoni di silenzio e luce. Questi
sono i due elementi a cui non posso rinunciare: silenzio e luce. Forse per
questo amo le mansarde.
Emilio Fabio Torsello
@emilioftorsello