di Nicola Lagioia
Einaudi, 2014
pp. 418
Il consiglio spassionato è: divorare “La ferocia”. Magari, successivamente, ci sarà bisogno di chiarire certi passaggi, depositarli, ricostruirseli in testa, perché no rileggerli. La ferocia a chi appartiene? È una parola impegnativa, io la trovo anche letteraria. La ferocia è una condizione che si raggiunge per accumulo. I singoli personaggi, infatti, non sono delle belve assatanate, non ci sono i cartelli messicani della droga di Don Winslow, nonostante si finisca per indagare pure qui, e smascherare, un contesto malavitoso.
Da Vittorio Salvemini agli ultimi comprimari, alcuni sono peraltro ben caratterizzati, tutti si sostengono grazie a un intricato sistema di alleanze di comodo dove entrano in ballo galoppini, affari sporchi, paesaggi sventrati, sporchi festini. Perfino una figlia. E ricatti. Eppure in ciascuno cresce di pari passo un senso di profondo malessere, vuoi per l’età vuoi per margini di coscienza, un malessere paludoso, quello della gente di potere ma sull’orlo perenne di un burrone in fondo al quale sta la sconfitta. Delineabile.
Lagioia s’immerge in questa palude con una perseveranza che per qualcuno può essere fastidiosa. Personalmente non ho provato questo sentimento, nemmeno quando dalle pagine emergono gli aspetti più perversi, perché si parte sempre da un’esplorazione a monte: quella del cuore dei “cattivi”, una prospettiva che svela una traccia di umano. Non sono feroci, assumono semmai atomi di una ferocia schizzata ovunque.
Rischia anzi di suscitare irritazione la collera risoluta del “buono”, Michele, il classico elemento estraneo di una famiglia ricca e potente, che si intestardisce sulla morte della sorellastra Clara a cui è legato fin da ragazzo in maniera morbosa. Ovviamente perché la versione ufficiale fa acqua da ogni parte. Ma anche qui Lagioia ha uno scatto verso l’alto: «Michele non cercava la verità. Qualcosa di più sottile. La nera membrana di celluloide dentro cui è imprigionato un fantasma che scompare in fase di sviluppo. Neanche la menzogna, ma un gesto. Qualcosa che spezzasse la catena dei significati, così che la sete di verità non fosse mai nemmeno nata». La verità ridotta a fantasma perché non può essere che così in un mondo che è un rincorrersi di spettri.
La ferocia, allora, è il quadro d’insieme, il tessuto connettivo: è l’indifferenza della madre di Clara verso Michele che non è suo figlio, è il riempire di botte una donna mentre se ne abusa sessualmente, è feroce, perché grida vendetta, il territorio sputtanato dal malaffare o la scena della gatta di Michele che torna randagia e affonda su un ratto con il quale ha intrapreso uno scontro mortale. Ecco il passaggio più crudele, non a caso posto in un momento del libro in cui tra Michele e Vittorio, il padre costruttore, padrone indiscusso della famiglia, sembra scoccare una scintilla reciproca di affetto. Questi tasselli, i personaggi che li governano, gli atomi di ferocia che acquisiscono vanno a comporre un mosaico spietato, una spietatezza ben rafforzata dalla natura dove l’intera vicenda viene collocata: a volte maligna, perché così l’ha resa l’uomo sia chiaro, comunque gelida anche se siamo in Puglia, dove «un esercito di ventilatori rimescolava il caldo da una stanza all’altra, sconfitto dalla maestà del giugno adriatico», che è come il tavolo delle stanze dove si effettuano le autopsie. Su tale tavolo, Lagioia poggia il prodotto finale di tanti resti esanimi, il suo cadavere: l’universo feroce che si è composto.
C’è molto altro in questo libro: c’è il modo in cui Lagioia tratta il topos dell’amore tra fratello e sorella, c’è l’Italia dei nostri giorni, c’è la sua riduzione a pattumiera di mercurio, piombo e cromo, le vere fondamenta dei complessi turistici che sbranano le coste più belle, c’è la regressione a uno stadio pre-civile che sembra coinvolgerla per intero. Ciascuno potrà trovare spunti di riflessione, restando tuttavia irretito dalle maglie narrative, dall’alternarsi di presenti e passati che progressivamente si avvicinano, ma per guardarsi in cagnesco, sfidarsi e fronteggiarsi per una questione di vita o di morte: come il gatto e il ratto. In questo duello, lo abbiamo accennato, vincerà il gatto grazie a un’artigliata e una zannata profonda, sarà il morso dell’odio, delle sofferenze trascorse e sedimentate a trionfare sul presente proprio mentre quest’ultimo pare rasserenarsi.
Due considerazioni: l’epilogo. Una villa oramai abbandonata. Era stata di un podestà, poi di un senatore, poi dei Salvemini, i protagonisti. Adesso si affacciano nuovi proprietari. C’è una sensazione di arrivismo che sta già impadronendosi di questi: un punto di pessimismo dove, nella ciclicità del tempo e dei passaggi di proprietà, le ville, le fortezze dell’autorità nell’immaginario collettivo, sono comunque destinate a ospitare chi intende scalare vette sociali senza alcun ritegno. Morto uno squalo se ne fa un altro. Il sistema ne fa un altro.
Infine lo stile: può essere il punto più delicato del romanzo. In certi momenti si nota un certo autocompiacimento, la ricerca scrupolosa dell’effetto che si specchia in un’indubbia bravura. Leggiamo due passaggi al femminile:
«Aveva riso come facevano le dive del muto, quando, prese in una luce fredda, mostravano i denti bianchissimi, portando il volto a favore di un bagliore che poteva essere l’eternità o una guerra non ancora scoppiata».
E ancora:
«La ragazza raccolse il bicchiere, lo portò alle labbra ripassate da un brutto rossetto rosa pallido, né puttanesco né infantile, segno di un ampio margine di scelta che lei sprecava totalmente, come se proprio quello, lo spreco, fosse la sua prigione».
Frasi eccessive? Barocche? Non tutte mostreranno la medesima efficacia ma caricano alcune pagine e di conseguenza ne smorzano altre in modo tale da permettere alla veste della trama di non staccarsi di dosso. Questo libro non cade miseramente per terra, ti si appiccica ostinato.
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