L'uomo è buono
di Leonhard Frank
Del Vecchio Editore, 2014
traduzione e a cura di Paola del Zoppo
pp. 336
15 €
Fatti e riflessioni sulla Prima Guerra Mondiale hanno interessato tanti contributi di questo 2014 che celebra il centesimo anniversario dal suo inizio. E a lungo si è parlato dell’impegno di intellettuali che hanno descritto tutta la portata di un evento che ha scosso l’umanità.
Tra questi c’è anche Leonhard Frank (1882-1961), autore amatissimo nel primo Novecento, e di cui la casa editrice Del Vecchio ha pubblicato L’uomo è buono a cura di Paola Del Zoppo, che è anche la curatrice.
Si tratta di una raccolta di novelle uscita nel 1917 a cui si aggiunge un altro testo dello stesso genere, L'origine del male, del 1915.
Di umili origini, Frank studia per diventare artigiano iscrivendosi, successivamente, all’Accademia delle Belle Arti di Monaco. Nonostante la carriera presto interrotta si avvicina all’ambiente delle avanguardie che in Germania vede nell’Espressionismo la manifestazione del dissenso verso una società in cambiamento.
Dalle trasformazioni delle abitudini, gli stravolgimenti urbanistici, le scoperte scientifiche fino alla svolta della psicanalisi, Frank partecipa all’intenso dibattito culturale che, di fondo, respingeva la morale guglielmina sottolineandone l’aspetto antidemocratico e l’educazione militaristica. L’atmosfera di quegli anni è colta in opere , per citarne alcune, come I turbamenti del giovane Törless (1906) e Il suddito di Heinrich Mann (1914).
Frank ritiene che l’etica borghese e il capitalismo siano alla base dei crimini commessi dagli uomini. La denuncia a questo sistema, di cui anche l’educazione scolastica è complice, è racchiusa, ad esempio, nella novella L’origine del male.
La devozione per la patria disgusta Frank, come quella volta che schiaffeggia un giornalista intento a esultare per l’affondamento del Lusitania. Accusato di tradimento e vilipendio alla nazione lo scrittore deve lasciare la Germania e si rifugia in Svizzera. Sono gli anni del Dadaismo, stringe amicizia con Hugo Ball senza, però, lasciarsi influenzare dalle sperimentazioni Dada.
Leonhard Frank (Würzburg 1882-Monaco 1961) |
Venendo alle novelle di L'uomo è buono, esse illustrano personaggi diversi che vivono la Prima Guerra Mondiale da vedova o padre, specchio di coloro costretti a fare i conti con una realtà oramai votata all’odio e alla violenza, in cui ragioni più alte governano milioni di vite.
Di Frank si riconosce lo spirito pacifista tant'è che copie del libro sono inviate al fronte inducendo molti soldati a disertare.
L’autore evoca la distruzione del conflitto dando voce agli umili, al silenzio di chi subisce le scelte altrui senza poter fare nulla. Il male è messo a confronto con il bene, anche nell’uso della lingua e di termini salvifici che saranno, in molti punti, eliminati nelle successive edizioni della raccolta.
Per Frank la parola non redime, solo annullando le forze negative l’uomo può crescere e la società progredire.
Di seguito pubblichiamo un estratto dalla novella Il padre contenuta nella raccolta L'uomo è buono. Tra le figure di Frank c’è anche quella di un genitore che non accetta la perdita del figlio caduto, secondo la morale dominante, 'sul campo dell’onore'.
Il trittico della metropoli di Otto Dix (1928). Nella città di Dresda reduci mutilati, povertà e degrado sociale sono i segni lasciati dalla Guerra |
[...]
La vita di Robert girava tutta intorno all’esistenza del figlio. Volava eseguendo le comande, si inchinava, ringraziava, risparmiava, accumulava, contava, si impegnava sperando ambiziosamente, divenne cameriere di sala, poi capo cameriere, assegnava a coppiette di innamorati segrete stanze per qualche ora, e chiudeva un occhio. Sprofondò in un abisso d’amore per suo figlio, lo mandò all’università, i capelli gli si fecero grigi, era felice di servire, felice attraverso il figlio, e di lui possedeva centinaia di fotografie. Aveva conservato tutti i suoi vestitini, i giocattoli: le piccole sciabole, i piccoli fucili, i soldatini di piombo, il cappellino con la scritta sms Hohenzollern.
[…]
Il figlio aveva vent’anni. Un martedì ricevette la chiamata alle armi, e sei mesi dopo ricevette la croce di ferro al merito.
E nell’estate del 1916 Robert ricevette la notizia che suo figlio era caduto. “Sul campo dell’onore”.
Un mondo era stato distrutto.
E quel padre distrutto leggeva di nuovo e ancora: “caduto sul campo dell’onore”. Il foglietto lo portava con sé nel portafogli, tra le banconote. Lo leggeva quando un forestiero arrivava a chiedere una camera, quando, fermo all’angolo del tavolo da biliardo, attendeva le ordinazioni, quando, chiamato dal campanello, correva per il lungo corridoio, prima di entrare nella camera e dopo averla lasciata, con in mano il conto e la mancia. Lo leggeva in cucina, in cantina, al gabinetto. “Caduto sul campo dell’onore”. Onore!
Era una sola parola, composta di cinque lettere. Cinque lettere che messe insieme formavano una menzogna di tale infernale potere che un popolo intero era stato incatenato da quelle cinque lettere, e aveva potuto essere trascinato nel dolore più mostruoso.
Il campo dell’onore non era visibile, non era immaginabile, per Robert non era comprensibile. Non era un campo, non era un terreno, non una superficie, non era nebbia e non era aria. Era il nulla assoluto. E a quello doveva attenersi, per tutta la vita. Dietro di lui non c’era nulla e davanti a lui non c’era nulla. Robert era in mezzo, sul nulla.
Le sue mani servivano, rilasciavano quietanze, ricevevano mance. A che scopo? Non c’erano più banconote, e il suo libretto di risparmio per lui era il campo dell’onore. E il campo dell’onore non era tangibile.
Robert dava le camere migliori, a richiesta, a metà del prezzo fissato, e aggiungeva salotto, sala da bagno; al ristorante fu retrocesso a cameriere semplice, quando agli ospiti il conto sembrava troppo alto, segnava a prezzo più basso le vivande e i vini più cari, e così da allora venne chiamato solo come aiuto se c’erano una festa o un’assemblea nella sala grande dell’hotel.
C’era qualcosa di più apatico dell’essere cacciato dal posto occupato per tutta una vita? Ecco il campo dell’onore, un nulla assoluto.
Spesso si ritrovava in camera del figlio, dove durante la guerra aveva raccolto fotografie, vestitini, piccole sciabole, piccoli tamburi, fucili e soldatini di piombo, e non provava nulla, osservando quei rimasugli ingialliti e graffiati. Automaticamente come era entrato usciva. Questo stato, in cui Robert si muoveva come una macchina, durò per settimane, finché un giorno l’uomo che era in lui trovò la forza di affrontare il dolore. La sua mano lasciò sfuggire la fotografia del figlio (in uniforme di fanteria, che reggeva il piccolo fucile) e Robert precipitò, come colpito da un martello pneumatico, nell’abisso, il cuore nudo al dolore. Robert urlò, solo una volta e molto brevemente. Toccato da qualcosa d’inesprimibile, eluse il dolore.
Quando sua moglie volle consolarlo con le stesse parole che aveva sentito a sua volta dal commerciante di coloniali, dal fornaio, dalla vicina, tutti oppressi dallo stesso dolore: «Adesso bisogna solo rassegnarsi», si ritrasse di fronte allo sguardo pericoloso di Robert e da allora in poi tacque.
Anche Robert taceva. Eseguiva il lavoro che gli veniva assegnato e quando lui, più di una volta, ebbe lasciato andare degli ospiti senza che avessero pagato, e il padrone volle impiegarlo solo come portatore d’acqua nel Caffè dell’albergo, ecco che si dimostrò pronto anche a quello.
Robert sapeva che sarebbe successo qualcosa. Per questo continuò a sopportare quella quiete pericolosa. Perché, come poteva essere possibile che nulla accadesse per mano sua, dato che lui non aveva più nulla da perdere, perché aveva già perso tutto? Lui, che era rivestito da un sottile strato di pelle di cameriere, sotto il quale l’essere umano gridava, e orribilmente il dolore gridava senza suono? La pelle sottile poteva incrinarsi e scoppiare per un minimo motivo. E allora il grido si sarebbe alzato.
Le armi giocattolo e le piccole sciabole le aveva portate in hotel per allontanarli dal proprio sguardo, e li aveva nascosti dietro il pianoforte. Perché se solo guardava quei giocattoli, in lui bruciava la colpa.
Quando un giorno un’associazione patriottica giovanile (ragazzini adolescenti sotto le armi) salì la via passando davanti l’albergo e facendogli sentire la canzone: «Non posso
darti la mano perché sto caricando…», Robert si sentì rodere dalla consapevolezza della colpa, perché anche lui aveva insegnato al figlio quelle canzoni o aveva consentito che gliele insegnassero. E pieno di orgoglio paterno aveva ascoltato.
Era sotto il portone dell’albergo e sentiva che un salto addosso ai malconsigliati ragazzi non sarebbe stato altro che un salto in aria. Perché dietro i giovani e dietro i canti di battaglia c’era qualcosa di intangibile: un nemico invisibile e incorporeo. Qualcosa lo trattenne dal saltare. Qualcosa lo preservò da quel minuto in cui il nemico sarebbe stato tangibile.
E un giorno alla fine riconobbe il nemico, che sta nell’uomo stesso e non al di fuori di lui, in modo così lucido che i suoi occhi divennero quelli di un assassino consapevole della sua colpa. E allora agli occhi gli salivano lacrime di rabbia selvaggia, quando vedeva una ragazza che aveva perso il suo fidanzato, una donna che aveva perso il marito, una coppia di genitori il figlio e ciononostante riuscivano a ridere e a ordinare un bicchiere di birra come al solito.
E quando una madre alla quale era stato schiacciato sul campo dell’onore l’unico figlio, sostegno della sua vecchiaia, sua speranza, punto focale di tutto il suo amore, disse a Robert: «Adesso dobbiamo solo rassegnarci», lui la afferrò per il collo.
Qualcosa accarezzò la mano del cameriere e la spostò con dolcezza sulla spalla della madre. Perché non la donna era colpevole, non era lei il nemico né lo erano le sue parole, ma era qualcosa che stava dietro quelle parole. Ed era qualcosa che non c’era. Era la non presenza dell’amore.
La consapevolezza della colpa assassina distruggeva il piccolo amore paterno, così che il sentimento originario del grande amore poté risorgere in lui.
[…]