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#LibrinTrincea - Caporetto nella letteratura di guerra pt. 2

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In questa seconda raccolta dedicata alla Prima Guerra Mondiale per la rubrica #LibrinTrincea, riprendiamo degli scritti di Mario Puccini che espressivamente rappresenta la “carovana” dei soldati che hanno sopportato di tutto. Una rappresentazione vicina a quella di Paolo Monelli, intento a richiamare la condizione umana più che quella di soldati in guerra per la patria. 
Il racconti distaccato di Alfredo Panzini, che riporta come la città continui con le sue vivacità nonostante la terribile sconfitta, si scontra invece con il dolore del racconto in prima persona di Aldo Palazzeschi quando apprende della disfatta.

NdA: le pagine di riferimento sono quelle del volume di Mario Isnenghi I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra (Venezia, Marsilio, 1967)






Mario Puccini, Dal Carso al Piave. La ritirata della Terza Armata nelle note di un combattente. Firenze, Bemporand, 1928

Indrappellati, obbediscono a malincuore. Non hanno più fucile, non baionetta, non tascapane.
Taluno zoppica, è ferito. Ma non sa spiegare da chi e dove. Crollano il capo, brontolano mozze parole.  La guerra, il combattimento, la brigata, il plotone: nessuno ha la cognizione esatta della sua provenienza.[…] i cannoni ricevono i più malandati. Sugli affusti, sulle ruote, sui carri di munizioni, s’aggrappola una folla cianchettante, bianca di bende, che non ha nulla di militaresco e di umano. Ma è proprio questo il soldato,  che conquistava ieri l’altipiano di Bainsizza?
Dove la compatezza di un tempo? Un ufficiale, ieri, dava un comando, e il soldato ubbidiva. Stanotte, noi possiamo sgolarci, ma questo popolo di fuggiaschi ci guarda dall’alto al basso e finge di non intendere. […]
Ma, da questa notte chiusa e fumigante, nascerà, tra poche ore, il giorno. Ci guarderemo ancora, uno con l’altro, ufficiali e soldati: e gli occhi dei gregari riconosceranno, come un tempo, in quegli che ha un grado, il fratello maggiore e il compagno di combattimento. Noi ridaremo, oh certo! A questa folla scomposta un’andatura ordinata. […]
Buoi, vitelli, maiali: bestie di ogni età e specie s’introducono nelle colonne in marcia.
Il contadino li spinge innanzi, con le verghe e con la voce: e i soldati, cui la voce ha ridato animo e allegria,aggiungono al coro tutte le esclamazioni che salgono loro alle labbra. Gli artiglieri danno qualche colpo di frusta alle bestie più restie.
Sembra una carovana macabra. Di gente che vada verso un gran cimitero a seppellire il frutto del lavoro e dell’amore di un popolo: con armi impotenti e finte, di mascherata […]
Ma quanto è lunga la strada per andare non si sa dove!
(pag. 202-203)



Paolo Monelli

Le bestiali necessità del cibo e del riposo, superano ogni senso di dignità; già soldati si scrollano di dosso il fardello della disciplina, gettano contro l’ufficiale il loro odio, il loro rancore, la soddisfazione d’essere prigionieri[…]
A Portule, dinanzi alla fontana, scene di para pigia pigia, un pugno nello stomaco del soldato, provati a rimproverarlo, risponde che la disciplina era roba che andava bene di là, parapiglia da trivio e da bordello: e al passaggio, tronfio, ilare, l’austriaco obeso dinanzi alla turba informe dei prigionieri, uniforme lacera, senza fregi, teste nude perché troppo pesante l’elmetto, stellette barattate per un fetta di pane, mostrine strappate al momento della resa. Fame.
(pag. 210)



Alfredo Panzini Diario sentimentale della guerra, Milano, Mondadori 1923

Domenica 3 novembre giorno dalle notizie tragiche da Caporetto. Alle ore cinque, non c’era più un posto libero al Teatro Valle per sentire Dina Galli recitare il Pollaio. Nei giornali, accanto alle strazianti notizie della guerra, colonne e colonne di reclame dedicate alla super diva Lyda Borelli, alle film sensazionali, Ivan il terribile, alla Maschera dai denti bianchi (ma se tutto il Carso è un biancheggiare di teschi dai denti bianchi?). cartelloni e cartelloni immensi, più che a Milano, per gli istrioni in frac, per le mime in posa, estatiche o erotiche.
(pag. 212)



Aldo Palazzeschi Due imperi … mancati Firenze, Vallecchi, 1920

La testa mi girava, ero febbricitante, ogni scalino era un colpo micidiale al cuore.
La donna vedutomi arrivare così, mi corse incontro a mezza scale per sorreggermi credendo mi fosse venuto male per istrada o in quartiere. «No, no» le dicevo, per farle comprendere che non mi sentivo male.
«Che hai, cos’è, si può sapere?» aveva ripetuto non potendo capire. «Cosa è successo?».
«Una cosa orribile, una cosa orribile …»
«Ma parli santiIddio, che?»
«Una sconfitta …»
«Ah …»
«Una sconfitta … grande»
«Stavo a sentire»
«Hanno sfondato il fronte»
«E cosa me ne importa a me se hanno sfondato il fronte? Hanno fatto bene»
«Disgraziata! Disgraziata! Non si può nemmeno immaginare quali conseguenze terribili …»
«Bene»
«Vengono i tedeschi»
«Bene!»
«Ne soffriremo tutti, tutti, le pene che abbiamo sofferto saranno le gioie del paradiso di fronte a quelle che ci aspettano»
«Ah sì, eh? Gli è icchè gli avea a succedere
Voltò le spalle e andò in cucina a seguitare le sue faccende. Mi serravo le tempie ardenti fra le mani sforzandomi nel delirio di pensare, di discernere. Ma quale era la verità? Dove ero io?

(pag. 217-218)